Bondo, agosto 1974. Dal Cimitero all’Apocalisse

Quella che va in scena alla Casa Rusca di Locarno ( fino al 18 agosto) è una mostra incandescente. Talmente densa di significati, sovraccarica di input inaspettati e cosparsa di straziante bellezza da far girare la testa.Quella che si dà al visitatore è, infatti, una possibilità unica di scoprire, o rimeditare, su uno dei passaggi nodali della pittura del ’900 non solo svizzera, ma europea. Le mostre a Locarno sono due: la prima parte dalla disponibilità di un nucleo di bellissime fotografie che Daniel Cartier, allora giovanissimo, scatta nello studio di Varlin a Bondo, tra il 1973 e il 1974. Sono fotografie che hanno due pregi fondamentali: da una parte restituirci molto bene il carattere del pittore e il suo ambiente, ritraendolo al lavoro ma anche nella vita famigliare spesa tra la moglie Franca e la figlia Paola. Dall’altra, fissare sulla pellicola molti dipinti ancora in uno stadio intermedio, dandoci informazioni preziose sul modo di procedere del pittore e, almeno in un caso, testimoniando in modo unico stravolgimenti che cambia no il senso stesso del dipinto. In mostra, l’affiancamento delle fotografie di Cartier con i grandi dipinti originali è veramente interessante ed è l’occasione per vedere alcuni dei capolavori dell’artista. Spiace solo che le bellissime fotografie non siano stampate a dovere e siano un po’ sacrificate da una riproduzione su pannellini normalmente usati per la segnaletica (un eccesso di umiltà del fotografo, di fronte alle tele di Varlin? Non sapremmo dire). All’ultimo piano una seconda mostra presenta gran parte dei dipinti che Varlin ha realizzato, prevalentemente negli anni Cinquanta, in Ticino, ritraendo terse, e a loro modo innocenti, vedute delle strade di Locarno, Lugano e non solo. Il pittore cattura negozi e palazzi ora scomparsi o trasformati, ma anche qualche personaggio di cui ci obbliga a immaginare la storia.

Anche solo questa seconda mostra merita assolutamente una visita, per non perdere la luce con cui Varlin riesce a tratteggiare le case, costruite con singole campiture cromatiche in un procedere che ha qualcosa di medioevale e fauves insieme. È un momento della sua pittura che aiuta molto a comprendere le opere di segno opposto che meglio conosciamo: tutte lacerazione e filamenti, tese al monocromo sfregiato. Certo un locarnese, magari un po’ in là con gli anni, riconoscerà a colpo sicuro molti di questi scorci e sarebbe stato bello che, in un certo senso analogamente a quanto avviene nell’altra mostra, si fosse fatto un lavoro puntuale di indagine presso gli archivi di fotografie e cartoline storiche ticinesi per rivedere quello che poté ritrarre il pittore. Si sarebbe potuto coinvolgere magari le scuole ticinesi e farle lavorare a quest’opera d’identificazione, che sarebbe diventata per loro un’opera di riappropriamento dei propri luoghi e della propria storia.

Ripartendo dalla prima e, direi, principale mostra, ci si trova di fronte un bouquet di opere che rendono ragione della grandezza di questo pittore, capace di trasformare un oggetto simbolico ma semplice come una valigia, una poltrona o un letto, in chiavi d’accesso per il gorgo apocalittico dell’esistenza. E vedere, o rivedere, vicine le due versioni di L’uomo col cane, solo per fare un esempio, ci obbliga a riprendere in mano il paragone più scontato con i Papi urlanti di Francis Bacon, per interrogarci sul significato di una citazione tanto spudorata.

Ma il vero colpo al cuore è al piano terra. Ad apertura dell’esposizione è posto, infatti, forse il più importante, certamente il più esemplificativo dipinto di Varlin, quell’Apocalisse che abbiamo voluto far giganteggiare anche in questa pagina. Lungo oltre 5 metri, è certamente il più bel ritratto mai fatto al critico Giovanni Testori, con Dürrenmatt il cantore per eccellenza di Varlin. Non ci vuole molto a capire che di fronte a questo quadro ci si trovi al centro del tornado, non solo della mostra, ma dell’esperienza storico-artistica del Novecento. L’esposizione aggiunge alla già indimenticabile visione del dipinto la possibilità di vedere la parte forse più incredibile degli scatti di Cartier, una sequenza bellissima che documenta come quello che s’intravede nel dipinto intorno a Testori, altro non è che ciò che rimane di un altro dipinto già concluso: il Cimitero di Lugano. Utilissima e bellissima la sequenza di foto a colori che mostrano un Varlin intento a “danzare” davanti alla tela, mostrandoci come la sua furia creativa e la drammaticità dei risultati fossero attraversate da quella straordinaria ironia e leggerezza che tutti i testimoni ricordano. Come interessanti risultano i disegni preparatori di Varlin eseguiti al Cimitero per la prima stesura del quadro e risalenti, probabilmente come il primo dipinto, al 1972 circa. Ciò che testimonia Cartier con le sue foto è che la trasformazione è avvenuta in un momento preciso, in quell’agosto del 1974 che ha avuto la fortuna di documentare ed è avvenuta perché Testori era lì presente, seduto sulla celebre poltrona, per farsi ritrarre dal vero e sconvolgere una tela che sembrava conclusa due anni prima. Non sono dettagli da poco, anche perché non avviene spesso che la data del dipinto più importante di un pittore del Novecento venga spostata di due anni, dal 1971-1972, riportato ancora nel catalogo della mostra, al 1972-1974, come attestano le fotografie. Varlin sarebbe morto tre anni dopo e queste foto, se si vorrà considerarle (quali sono) anche come prove, ci obbligheranno a riconsiderare meglio questo ultimo periodo dell’artista, modificando molte date di opere celeberrime, da ripensare anche nel rapporto tra di loro.

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