Biennale, ultima chiamata. Consigli per una visita/2

L’ARSENALE. E quando arrivi alla fine s’apre l’ampiezza della laguna ornata da un caldo pomeriggio d’autunno. Persino il grigio diventa un bel colore da usare, quando l’acqua dei bacini, stretta appena dalle eleganti mura di mattoni rossi, permette al cielo immobile d’autunno di appoggiare la testa sul suo ventre.

È solo allora che un suono attira l’attenzione dell’occhio, chiamato a sorprendere una piccola imbarcazione bianca che arriva all’orizzonte. Sopra di lei, una piccola orchestra di ottoni spande una musica dolce di nostalgia, mentre procede verso la riva per colmare di suono le volte delle grandi gaggiandre dell’Arsenale, i bacini di carenaggio, un tempo usati per riparare le navi.

Ulisse è tornato a casa? Non sapremmo dire se, nascosto tra quel suono triste, ci sia spazio per un eroe. Certo, a ben guardare, il cavallo alato che decora la vela ha perso tutta la sua grazia e, negli anni, ha preso abbastanza peso da non poter più spiccare il volo.

Si è fatto tardi.

Lasciati i Giardini, a piedi o con quell’unica fermata di traghetto necessaria, si approda in fretta alla seconda sede della Biennale di Venezia. La barca e gli ottoni della performance S.S. Hangover dell’islandese Ragnar Kjartansson, insieme al padiglione Italia e al Giardino delle Vergini, di fatto, chiudono il percorso dell’Arsenale. Ad aprirlo è la seconda parte del Palazzo enciclopedico. Qui viene maggiormente declinato il titolo e il carattere accumulatorio e classificatore di esperienze e cose, che sono connaturati al fare artistico. Si mostra così l’ossessione per la catalogazione di ogni forma e oggetto, che rende molti non artisti inconsapevolmente tali. Tra di loro, come ai Giardini, alcuni artisti in senso stretto spiccano per la loro ricerca e le domande che ci provocano.

Gli artisti da segnalare

Camminando tra le prime stanze, non si può non notare la lunga struttura centrale su cui sono montati 171 piccoli schermi: un enorme polittico contemporaneo in cui scorrono le fotografie della Cina di Kan Xuan. Gli schermi sembrano costruire il carapace di un enorme mostro apparentemente immobile ma che il cambio delle singole immagini negli schermi mette in continuo movimento. In effetti, un mostro immobile ma in febbrile movimento è una perfetta definizione della Cina.

L’opera più affascinante della Biennale è firmata dal danese di origine vietnamita Dahn Vo, che ha sottratto alla demolizione i resti di un’antica chiesa cattolica in Vietnam: la struttura portante in legno, le decorazioni orientali e grandi drappi di tapezzeria in velluto su cui rimangono numerose impronte di quadri o ex-voto. È una meditazione sul successo e il fallimento della cultura Occidentale in Oriente, ma anche sulle tracce che lascia la storia sui luoghi e su ciascuno, visto che il dramma tra origini e sovrapposizioni culturali è biograficamente centrale per l’artista. Su un muro bianco, quasi a mimetizzarsi con il resto dei resti, è appoggiato un grande telaio. Bisogna leggere la didascalia per sobbalzare: non si tratta di un telaio qualsiasi, ma di quello su cui era tesa la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio, opera trafugata nel 1969 e mai più ritrovata. Un altro segno di sconfitta, questa volta tutto Occidentale, che fa ancor più male quando si nota che sul telaio sono rimasti ancora dei lacerti della tela, tagliata su tutti i lati per rubarla.

Un video toccante, che nella complessità dell’Arsenale non deve sfuggire, lo firma regista ceco Harun Farocki. I brevi episodi che si avvicendano raccontano del rapporto della gente con i monumenti, sacri e non, e, in particolare, dell’esigenza di toccarli. Sono immagini ricche di pathos che parlano del bisogno di realtà, carne e materia che è universale e, in particolare, connaturato alle religioni; dalla pietra dove si sarebbe appoggiato Cristo salendo al Calvario, al monumento indiano, fino al turista giapponese che infila la mano nella romana Bocca della verità, il contatto fisico con il monumento è ineliminabile.

Procedendo si attraversa la grande stanza affollata da decine di sculture grigie in ferro e resina plastica del polacco Pawel Althamer, uomini e donne nelle pose e relazioni più di- sparate, i cui volti e mani sono calchi fatti agli abitanti di Venezia. Si arriva così a una piccola ma nutrita mostra nella mostra, curata dall’artista statunitense Cindy Sherman: un immaginario non scontato, dove colpisce come alcune opere ben scelte di Enrico Baj ne mostrino una qualità e modernità quasi inaspettate.

Prima di passare ai Padiglioni nazionali, un video dell’italiano Yuri Ancaranici mostra un medico e il suo robot impegnati in una delicata operazione chirurgica. È una riflessione sul lavoro che completa una trilogia di video – gli altri erano dedicati a un tagliatore di marmo e a un palombaro – di grande fascino estetico, che ragiona sul rapporto tra macchina e uomo con una certa potenza visiva.

I padiglioni nazionali

Nei padiglioni nazionali bisognerà destreggiarsi tra alberi che scendono dal soffitto (Danimarca) e forti odori respingenti dei mercati del mondo (Bolivia). Una certa attenzione merita il padiglione cileno dove Alfredo Jaar fa precedere la propria installazione da una grande e sorprendente foto di Lucio Fontana che cammina tra le macerie del proprio studio milanese distrutto dalle bombe. Al centro del padiglione, si sale su una pedana con una grande vasca quadrata di acqua presa dal canale: qualche bolla bianca ed emerge dal fondo un grande modellino dei padiglioni della Biennale; solo qualche istante e le acque melmose inghiottono nuovamente tutto. Un ciclo di distruzione ed emersione che ci obbliga a pensare (anche) al destino fragile di Venezia.

Molta attenzione merita certamente il Padiglione Vaticano. E non solo perchè è la grande novità di questa Biennale, ma perchè, a prescindere dalla sfida culturale che rappresenta e dell’importanza di questo passo nel lungo cammino di riavvicinamento tra arte contemporanea e Chiesa, si tratta di un bel padiglione. Funziona la premessa colta del pittore romano Tano Festa (1938-1988), di cui, a introdurre il tema, sono poste tre opere ispirate dalla Volta affrescata da Michelangelo nella Sistina. Funzionano i tre artisti a cui è stato chiesto di ispirarsi ai primi 11 capitoli della Genesi e che hanno tradotto con la propria opera tre temi: la Creazione (lo Studio Azzurro dell’appena scomparso Paolo Rosa), la Decreazione, ossia la violenza dell’uomo che distrugge la natura e se stesso (il fotografo ceco Josef Koudelka) e la Ri-creazione (l’americano Lawrence Carroll). Nelle installazioni di Studio Azzurro non si scorderanno facilmente i detenuti del carcere di Bollate (Milano) che nelle grandi proiezioni, chiamati dalla mano del visitatore appoggiata sullo schermo, guadagnano il primo piano per raccontare la propria Genesi, ossia i nomi e le professioni dei propri genitori e avi. È un viaggio nella storia di questi uomini che ci appaiono ora fragili come ognuno di noi, trasformandoli da nemici a nostri compagni di viaggio. Da appuntare tra i dettagli da tenere nel cuore ci sono certamente i due bastoni da passeggio che si intrecciano in una delle tre grandi opere di Carrol: questo dettaglio in rilievo è completato da un piccolo mazzolino di fiori secchi, che sembra nascere proprio dall’incrocio dei due bastoni: è la tenerezza di un amore che sfida il tempo e non ha paura della vecchiaia, anzi fiorisce da essa. E scusate se è poco.

Nello stesso edificio del Padiglione Vaticano, al piano di sopra, val la pena di buttare l’occhio al padiglione del Sud Africa, almeno per ammirare le bellissime sculture fatte con i libri scolpiti di Wim Botha: certo un po’ manieriste, ma capaci di sprigionare una notevole carica espressiva, accentuata dall’utilizzo di inserzioni in legno e metallo. In cerca dell’uscita, attenti al padiglione degli Emirati Arabi, nel senso che, entrandoci, la simulazione video che vi avvolgerebbe è a forte rischio mal di mare.

Che praticamente l’ultimo padiglione della Biennale sia il padiglione Italia ha qualcosa di sinistro… Certo non dispiacciono le sempre bellissime foto di Luigi Ghirri o la storica performance di Fabio Mauri, ma non avevamo bisogno di andare alla Biennale per scoprirle… Per salvarlo, giocheremo la carta stanchezza, avviandoci verso casa…

Sul canale del ritorno

Riprendendo il traghetto verso piazzale Roma o la stazione, si consiglia caldamente una sosta alla fermata Sant’Angelo: tra i tanti padiglioni esterni, non si può perdere assolutamente quello irlandese, occupato dal giovane fotografo e regista di guerra Richard Mosse (33 anni) che presenta alcune grandi fotografie e uno straordinario video dislocato su diversi schermi dedicati alla vita e alla violenza militare in Congo. Mosse rinnova l’immagine delle foto di guerra con una particolare tecnica a infrarossi che tinge la vegetazione di un color ciclamino intensissimo. Come l’infrarosso ci fa vedere quello che non vediamo a occhio nudo, lui ci fa guardare le guerre che non vogliamo vedere e che rimangono invisibili. L’effetto è di una bellezza e violenza allo stesso tempo che non si scordano. Una grande opera di denuncia ma veicolata da una tenace attenzione al bello, in una commistione tra forte e vero, tra dolce e splendente che vorremmo ritrovare nella vita di ogni giorno.

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