Il dolore di Otto Dix caccia Cristo dalla croce

Otto Dix (1891-1969) è il pittore per eccellenza della prima Guerra mondiale, colui che ha saputo ritrarne il dramma, restituendone un’immagine dall’indimenticabile crudezza.

Der Krieg, comunemente chiamato Trittico della Guerra, è l’opera più ambiziosa dell’artista, che vi lavorò per quattro anni (1929-1932), rielaborando in essa dieci anni di ripensamenti (e incubi) sulla Guerra, vissuta in prima persona dal pittore, partito volontario e tornato con diverse onorificenze e molti schizzi dal fronte.

In quei dieci anni dalla ne della Guerra, in attesa di trovare la forza di ritrarla faccia a faccia, Dix era diventato celebre per le sue immagini dello squallore in cui vivevano i mutilati, ridotti a mendicare per le strade, o le donne, costrette ad assecondare i vizi della società borghese per vivere. Un’opera di denuncia sociale che, durante il Nazismo, gli costò l’etichetta di “arte degenerata” e che, proprio l’anno dopo aver terminato questo dipinto, gli fece perdere la cattedra all’Accademia di Dresda, costringendolo all’isolamento.

Il Trittico è chiaramente ispirato all’altare di Isenheim di Grünewald a Colmar. Di esso è, di fatto, una sorta di rivisitazione che va oltre i generici punti comuni, come la composizione a trittico e predella. Siamo di fronte a una Crocifssione laica in cui il dramma della Redenzione è sostituito dal dramma senza salvezza della guerra. Il Cristo centrale di Colmar è sparito, o meglio, è rievocato fn nella resa tormentata delle carni in alto a destra: non più al centro del cosmo, ma impietosamente confccato testa in giù in un cumolo putrefatto di cadaveri e additato da un morto ridotto a scheletro che incornicia la scena e che sembra rinfacciargli la sua impotenza.

Anche nella predella, il corpo deposto di Gesù ha dovuto sloggiare per far posto alle salme di tre “nuovi martiri” alla Holbein: tre soldati che, più che suggerire l’immagine di nuovi alter Christus, occupano quello spazio con la disperazione di chi ci conferma che non ci sarà alcuna resurrezione da attendere. Nel pannello di destra, il Sant’Antonio Abate lascia lo spazio al fantasma di un soldato intento a trascinare un compagno ferito; per appoggiarsi, nessuna granitica colonna, solo un tronco malmesso destinato a perire sotto le famme che incombono dal fondo. Il tutto sommato innocuo diavoletto che in Grünewald, rompendo il vetro, fa capolino in alto a destra, è ora un mostro spaventoso che si è talmente impadronito della scena da non aver più bisogno di comparire. Quanto avrà ripensato il pittore alla baldanza, comune a molti artisti del Novecento, con cui si era arruolato? E quanto avrà rimuginato sul contrasto tra le speranze poste e l’orrore sperimentato? In quegli occhi torvi che i soldati lanciano sotto ai loro elmetti, mentre marciano immersi nella nebbia sull’anta di sinistra, c’erano anche i suoi. E chissà quanto ha contato il rimorso nell’ideazione di quest’opera senza speranza.

Sembra incredibile che la memoria di esperienze come quelle descritte da Dix non abbia evitato all’Occidente, e alla sua Germania in particolare, di ricadere, pochi anni dopo, in una nuova Guerra e nello sterminio dei campi di concentramento. Complice il silenziatore messogli dal Regime Nazista, quest’opera ha di fatto fallito, almeno nell’immediato, il suo valore di denuncia. Spetta ad ognuno chiedersi cosa possa dire a noi oggi un’immagine come questa: in un mondo che non ha smesso di farsi la guerra ma che l’ha allontanata dall’Occidente, rendendola un qualcosa di non detto e molto poco considerato. In ogni caso, ragionando sull’attualità di questo dipinto, non si potrà che rimanere interdetti, date alla mano, notando che tra il Trittico di Otto Dix e Guernica di Picasso (1937), l’icona universale del dramma della guerra, passino solo cinque anni. Nella memoria collettiva, la modernità e comunicabilità dello stile picassiano hanno soppiantato in un lampo quest’immagine di dolore che sembrava insuperabile.

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