Ruggito e scossa di verità. Riguardare Nag Arnoldi

Chiedermi di recensire una mostra di Nag Arnoldi sul Giornale del Popolo è come buttarmi giù da un aereo senza paracadute. Del ticinese classe 1928 i nostri lettori sanno tutto: si tratta dello sculture vivente più noto e di uso sul territorio del Cantone, mostro sacro immancabile nel salotto di ogni famiglia bene, protagonista di numerose mostre pubbliche in anni anche recenti. Non sarò io a dover ricordare il lungo percorso dell’artista formatosi in Ticino ma con esperienze in Centro e Nord America, il suo percorso di scoperta e rivisitazione del Rinascimento italiano, della mitologia del Minotauro di Dürrenmatt, l’influenza di Picasso, l’attraversamento dell’astratto…

Lasciamo alla foltissima bibliografia, conquistata in questi sessant’anni esatti dalla sua prima mostra personale, il diritto di dettagliare, in modo ben più attrezzato dello scrivente, il percorso dell’artista. Del resto sembra essere la stessa mostra alla Galleria d’Arte la Colomba di Viganello a chiederlo, presentando un nucleo preciso e circoscritto: un campione dell’ampio bestiario dell’artista, un nutrito nucleo di sculture – i celebri cavalli, ma anche gatti, rinoceronti, aquile, tori – di cui non si comunica la data esatta di esecuzione, ma scalabili probabilmente negli ultimi vent’anni, spesso ottenuti da una fusione distante qualche lustro dal momento in cui il calco è stato plasmato. Del resto, gli ottantasei anni dell’artista e la possibilità di guardarne la produzione orfani di una partecipazione corregionale o personale ci chiede di considerare questo nucleo per quello che mostra, di lasciare che sia l’opera di Arnoldi a “difendersi”, a dimostrare il suo valore nell’inevitabile confronto mentale che evoca, non solo con un mostro sacro della scultura svizzera come Giacometti, ma anche almeno con un paio di artisti italiani come Luciano Minguzzi e, soprattutto, Marino Marini. Ebbene, credo che si possa avere oggi il coraggio, o la sfrontatezza, di dire che alcune delle sculture in mostra alla Colomba sono in assoluto le opere migliori che l’artista ha prodotto. Allargando la prospettiva con cui si guarda la sua carriera, infatti, mi sembra evidente che quando l’artista cerca di interpretare soggetti letterari, religiosi o mitologici, quando è più apertamente a contatto con i “mostri sacri” dell’arte del Novecento, dimostri tutta la fatica di chi debba vestire panni non suoi, di chi è affannato a inseguire e impossibilitato a guidare. Arnoldi non avrà mai la potenza destabilizzante di Giacometti e l’eleganza drammatica di Marino Marini e far finta di non vederlo sarebbe fargli un torto maggiore che tacerlo. Tutta la produzione più tentativamente intellettuale dell’artista non vale la vitale, rapace e adrenalinica potenza di queste sculture d’animali. Il visitatore è chiamato a lasciarsi schiaffeggiare dalla bellissima materia bronzea, dalle patine sorprendentemente colorate, dalle tensioni contrapposte che creano ritmo e scosse alla colonna vertebrale degli esseri che si snodano di fronte a lui. C’è un ruggito di rozza verità che preme sotto l’epidermide spaccato di questi animali, un ruggito che chiede di venir fuori e che sbrana tutti i professorini, gli intellettualini, gli acrobatini, le fatine, i soldatini e gli eroini di cui non sentiamo la mancanza.

L’impressione è che tutta la produzione precedente non sia stata che un passaggio necessario per questo ritorno al naturale, è come se Arnoldi, dopo 40 o 50 anni di lavoro accettasse di essere un ticinese, accettasse di attingere all’unica vera forza, la forza della vita, una vita che vien dalle cascine dei gatti che rizzano il pelo, dalle aie dei galli che si stendono nella loro straordinaria bellezza d’articolazioni, dai cavalli che si ergono nella loro bellezza palpitante tanto superiore da apparire quasi eccessiva. Una liberazione di verità che non è legata solo al soggetto rappresentato ma che chiede una soglia di attenzione altissima e mai paga all’artista. C’è da chiedersi, ad esempio, quante speranze lo scultore abbia riversato in questi anni nell’elemento formale della sfera lucida alla Pomodoro con cui trasforma alcune delle natiche dei suoi cavalli, tramutandole in una sorta di uovo spaccato da cui si germina l’animale tutto. Occorre interrogarsi sul reale bisogno di trasformare gli stessi cavalli nell’appendice narrativa di un anonimo cavaliere o di un’amazzone. E si potrebbe, infine, determinare, con ruvida sincerità, quale accrescimento di conoscenza della sua opera portino i suoi grandi disegni, sempre ancillari alla produzione scultorea. Liberati da qualche fardello credo si possa apprezzare l’opera presentata, nella chiave indicata dallo stesso artista, quando esplicita che «molti dei miei animali assumono questo atteggiamento, di repulsione o rivolta, ma non sono sofferenti, esprimono la vita che li attraversa». È così che la forza e la modernità della sua opera arriva al visitatore d’oggi. Un visitatore cresciuto nel cemento, che ha avuto rari o inesistenti contatti con la natura animale, per i quali i cavalli non sono esperienza diretta di forza e bellezza selvaggia, ma che lo diventano grazie all’arte, purché vera e libera.

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