La modernità di Courbet. Domande sul Realismo

Sembra impossibile rimanere delusi da una visita alla Fondazione Beyeler di Riehen e non solo per il sempre sorprendente edificio di Renzo Piano alle porte di Basilea, dove il trasecolare della luce sulle superfici di porfido rosso regala a questa scheggia conficcata nel paesaggio una naturalezza e armonia che sembrano addirittura crescere con il passare delle stagioni.

Varcato il portico che ti accompagna alla destra del laghetto di ninfee – pronti a farsi incantare dal domino sapiente con cui quella stessa luce viene piegata alle necessità delle opere esposte – ci chiediamo se il sacrificio che la mostra in corso chiede, sottraendo visibilità a parte dell’eccezionale collezione permanente, verrà ripagato dalla qualità delle opere arrivate per l’occasione.

Manco a dirlo, com’era successo non più di qualche mese fa per la mostra di Gerhard Richter, anche questa volta l’esposizione dedicata al padre del Realismo, Gustave Courbet (1819-1877), ci appaga oltre modo di qualsiasi sacrificio. Le circa sessanta opere del pittore morto a La Tour-de-Peilz sono di quelle destinate a far godere ogni visitatore disposto a lasciarsi turbare e avvolgere dalla forza della pittura.

Insieme alla grandezza, immensa, del pittore di Ornans è infatti indubitabile che a emergere prepotente è un inno alla resistenza di questo linguaggio e delle sue potenzialità destinate a dimostrarsi immutate, se non fortificate, dalle tempeste dei secoli vissuti.

Si tratta di una mostra che apre, nell’osservatore, molte più domande di quelle alle quali risponde. Domande tanto crude quanto salutari sull’arte contemporanea, che di un pittore come Courbet non può che dirsi figlia, proprio mentre s’impegna a tracciarne l’incolmabile e dolorosa distanza. Non manca nulla, infatti, alle caratteristiche che fan no di Courbet un pittore moderno: il personalismo della sua opera, con il quale – un autoritratto dopo l’altro – impone il suo status di artista all’immaginario collettivo, grazie a gesti plateali di rottura, come i celebri e ambiziosi “Padiglioni del Realismo” fatti costruire a danno delle proprie finanze per esporre i suoi dipinti in polemica con i Salon (1855, 1867), o attraverso azioni simboliche come il gran rifiuto a Napoleone III che voleva assegnargli la Legion d’onore, nel 1870, e, naturalmente, attraverso il suo impegno politico repubblicano, che lo porterà, pochi mesi dopo, ad essere membro della Comune di Parigi e tra i responsabili della demolizione della Colonna di Place Vendôme (1871) che gli sarebbe costata l’esilio due anni dopo. Un curriculum che assolve ampiamente agli obblighi previsti da ogni patentino di artista ribelle, insomma, e che trova riscontro nei soggetti dei propri dipinti, in cui contadini e spaccapietre irrompono sulla tela a grandezza naturale, conquistando un palco prima riservato solo a nobili e a santi. Così come sono molte le opere pervase di una sensualità sfrontata, a volte saffica, fatta esplodere fino a diventare unico soggetto del quadro, come accade nell’opera scandalo eccezionalmente presente in mostra: L’origine du monde, primissimo piano dell’intimità femminile che accese la pruderie di mezza Europa, che appartenne al padre dei lacaniani e che, ogni volta, ci fa ricordare con un sorriso il passaggio di Baricco che descrive le reazioni dei visitatori del Musée d’Orsay, fatalmente attratti dal dipinto. È così che, a chi ricorda l’opera erotica dello scultore vivente più pagato al mondo, Jeff Koons, non si stupirà nel ritrovarlo nella veste di prestatore di un nudo femminile di Courbet proveniente dalla sua raccolta. Poter disporre, insieme o singolarmente, di tre attualissime peculiarità dell’artista come “status”, “impegno” e “trasgressione”, fa di Courbet un pittore di cui non si può che parlar bene, senza per questo aver fatto realmente i conti con lo schiaffo della sua pittura. Ma se i motivi della sua modernità fossero solo questi, la mostra alla Beyeler non le farebbe onore.

La verità è, invece, che il livello in cui Courbet è padre della modernità è più profondo, nel senso letterale e molecolare del termine, al livello della materia: «C’è in Courbet una sorta di rombo ctonico infinito; d’infinita pressione, che non è più dell’uomo, ma dell’intera natura e dell’intero universo; quasi egli volesse ripetere il gesto di Dio nell’atto in cui impasta col fango le forme prime del mondo. Di quella pressione egli lascia sui suoi quadri tutte le impronte, tutte le ditate, tutte le furie, tutte le carezze e tutti i baci; che un atto d’amore senza fine liscia e ricompone poi nelle sue superfici geologicamente scosse e, insieme, perdutamente abbracciate e rassicurate».

Quarant’anni dopo, Giovanni Testori ci regala ancora la chiave di lettura più convincente con cui godersi la mostra, invitandoci a lasciarsi travolgere dalle particelle di materia, chiamate a formare l’umida verità di un prato innevato, di un’onda sul mare o di un corpo carnoso. La mostra non fa rimpiangere una gita parigina e non solo perché è un’occasione preziosa per ammirare in relazione tra loro opere provenienti da tutto il mondo, ma perché sono rappresentati tutti soggetti dell’artista, grazie al giovanile e bellissimo Autoritratto con il cane nero (1855), prima sua opera esposta in un Salon, ai paesaggi boschivi e marini, alle celebri onde, agli animali nella neve…

Un’esplosione di natura sazia il visitatore, che potrà lasciarsi andare fino alla vertigine e alla commozione, scoprendo che di sensualità sono intrise e inzuppate – ben più trasgressivamente che nei soggetti dedicati al tema – le particelle di ogni realtà naturale rappresentata, capaci di trasudare il proprio odor di vita a ogni tacca.

Uscito sull’ampio poggiolo di fronte alla parete vetrata che si apre sulla campagna di Basilea, il visitatore, un po’ frastornato dall’esperienza fatta, potrà interrogarsi, non solo sul rapporto tra realtà naturale e la sua rappresentazione. Seduto sui comodi divani bianchi, certo parte della mente sarà occupata da quell’autoritratto, Le Fou de peur (1844-’45), apparentemente non finito, ma in realtà una sorta di manifesto, esposto dal pittore tra i suoi capolavori, con il titolo di Le suicide, emblematico proprio per quelle macchie di materia che “firmano” il precipizio verso il quale l’artista suicida è fatalmente attratto. E un pensiero andrà ai cortocircuiti della storia culturale, in mostra esemplati da un grande Bouquet d’asters dedicato a Baudelaire nel 1859, a due anni dalla pubblicazione de Les fleurs du Mal

Ma la nostra mente, non può che correre alla domanda sull’arte contemporanea che apre sempre l’opera di Courbet, per interrogarsi su quale sia la sfida lanciata dalla verità della sua pittura agli artisti di oggi e su quale possa essere l’espressione sincera e attuale del loro Realismo. Non potrà più essere letteralmente quello di Courbet, dal quale occorrerà semmai imparare che la libertà non sta nella trasgressività del soggetto, ma dei propri schemi. Del resto, cosa ci insegna, se non l’assoluta libertà di contraddirsi, l’immagine indimenticabile di quei due giovani cervi che, librando nel loro salto, si staccano dalla materia stessa, appoggiandosi sulla superficie innevata della tela come due decoupage?

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