Il rigore si fa bello. Macchina scenica per Serodine

I curatori Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, con l’ausilio dell’architetto Stefano Boeri hanno realizzato un percorso per immergere il visitatore in un allestimento sorprendente..

La parola ai curatori: «Per chi pratica un certo tipo di storia dell’arte, quello – per intenderci e parlando un po’ a centoni – che discende dalla lezione di Roberto Longhi, lo sviluppo, sempre intrecciato, dei fatti figurativi comprende alcune personalità d’affezione. Sono pittori privilegiati da attenzioni speciali, la predilezione per i quali è un’immediata dichiarazione di appartenenza. Non sono tanti, una manciata per secolo. In generale sono artisti di cui si conosce poco, ma quel poco è di eccezionale qualità. La riscoperta di un’opera che li riguarda non è un fatto di routine. Le vicende biografiche di questi personaggi non sono del tutto chiare; vaste zone d’ombra ne caratterizzano la formazione. Nei tempi in cui vissero non hanno goduto di particolare fama.

Spesso hanno a che fare con contesti che la storia dell’arte da manuale considera periferici, da un capo all’altro dell’Italia».

Drogati di verità oggettive – Si lascia volentieri l’attacco del pezzo ai curatori, quando quella che si va recensendo è la mostra dedicata dalla Pinacoteca Züst a Giovanni Serodine, affidata a studiosi che da qualche decennio ci stanno squadernando la storia dell’arte lombarda con una chiarezza, completezza e, perché no, affezione, diventate imprescindibili. Perché ogni volta che Giovanni Agosti e i suoi compagni di avventura, in questo caso l’ormai insostituibile e determinante Jacopo Stoppa, prendono in mano un autore o un tema, si potrà stare certi che ogni biblioteca e archivio verranno dragati e che dal primo all’ultimo manoscritto, documento, cartolina, volume, articolo, tamburino o pamphlet verranno indagati e chiamati a cantare la propria nota, o aria, nel coro che calcherà il palco del saggio o della scheda in catalogo. Non ci sono notizie di serie B, nulla è secondario nella vicenda di un pittore e della sua opera: ogni riferimento trova il suo posto, perché date e dati sono la droga di cui non possono fare a meno certi studiosi. Si tratta di vittime di una dipendenza da verità oggettive, accresciuta oltre l’indole personale dal contesto in cui sono chiamati a operare: il turbinio di interpretazioni e approssimazioni spesso dolose, in cui naviga la Storia dell’arte e in cui tali certezze oggettive diventano indispensabili e rassicuranti come lo scheletro per l’anima, chiamato a reggere, nelle retrovie, alle intemperie dei dibattiti critici più cruenti, che si accapigliano sulle attribuzioni e le cronologie affettive, cui gli stessi curatori, naturalmente, non si sottraggono.

Scelte attributive, fortune espositive, citazioni bibliografiche, passaggi di proprietà, ma anche fratellanze iconografiche, vengono esposte senza riserve. Sono verità di uno scheletro quanto mai necessarie per un pittore come Serodine, capace di regalarci, nello stesso dipinto, vertici assoluti della pittura europea del Seicento e parti di qualità inferiore, tanto da farcele digerire a fatica come autografe. Altalenanze che, in catalogo, non sono certo taciute, ma dettagliate con dovizia di particolari e molteplicità di voci, che si fanno strada nella difficoltà a comprendere un percorso che ha bruciato la sua storia in una manciata di quadri, pochi anni e radi agganci documentari e cronologici. Si naviga a vista, insomma, e spesso ci è chiesto di tapparci il naso e buttarci a bomba nella pittura, godendosela per la sua bellezza inusitata.

Un palco per l’étoile – Il risultato cui sono arrivati i curatori è un equilibrio tra pudore espositivo e acribia da studioso che invitano a questa immersione. Perché la mostra che si può, e si deve, vede re alla Züst fino al 4 ottobre, non è una mostra per addetti ai lavori, è un’esposizione che srotola l’opera dell’asconese oggi conservata in Ticino in tutta la sua bellezza abbacinante, con una levità ed eleganza che ci permette di goderci la pittura come non era stato finora possibile. E qui il merito va anche alla capacità inclusiva dell’operazione orchestrata, che ha coinvolto, gratuitamente, Stefano Boeri. Alla sua prima mostra, il celebre architetto italiano ha introiettato la particolarità dello spazio espositivo, per dar vita a una macchina scenica. L’elegante scritta che firma la mostra visibile anche dall’esterno – regalata come tutta l’immagine grafica da Francesco Dondina – e il quasi nero delle pareti, che diventa colore autonomo e risplende come in un Matisse, sostengono, infatti, il carattere drammaturgico dell’allestimento, in cui il soprano, o l’étoile, è naturalmente la grande dinamitarda pala della parrocchiale di Ascona. L’incoronazione della Vergine, ultima opera del pittore in attesa di poter ritornare nella sua chiesa in restauro, è la tela intorno alla quale si costruisce, letteralmente, la mostra. È lei a dettare il ritmo, dispiegando la sua superficie fino a cinque metri dal pavimento e creando la linea cui porre tutti i dipinti della mostra, siano essi nella porzione alta della stanza, a fianco a lei, o sul corridoio-pontile a cui si accede dalla scala esterna alla torre scenica. L’effetto immersivo è un corpo a corpo con l’opera, sia essa scesa ai tuoi piedi nel ballatoio o avvicinatasi ai tuoi occhi come in chiesa è impossibile fare, nel caso della grande pala. È un gesto di restituzione della bellezza materica del pittore e un servizio amorevole al visitatore. Le didascalie sono visibili ma ben celate sulla balaustra e le righe di spiegazione sono poche e opportune: un allestimento sul crinale tra ragione e sentimento, insomma, frutto di una regia – ci si permetta l’approssimazione e l’invasione negli affetti altrui – ronconiana, anzi forse più ronconiana di Ronconi, se ben ricordiamo la mostra di Van Dyck allestita a Palazzo Reale nel 2004. Una mostra tutta di quadri, in cui le dieci opere ti circondano come in una lanterna magica o, in un zoopraxiscopio di Muybridge, in movimento nell’opera di Serodine, che ti fa scorrere da una pennellata all’altra, lungo i suoi fondi abbrustoliti, alla ricerca del volto di un padre che ritorna in due momenti della vita, ubriacandosi nella materia corposa, che rende più unitaria di quato sembri in fotografia la grande pala di Ascona o sobbalzando per quel giovane pittore, che spiace proprio non poter interrogare come un autoritratto, in cerca di qualche informazione in più sul grande Giovanni Serodine.

Il catalogo della mostra è una monografia bellissima, edita da Officina Libraria e realizzata con le foto appositamente scattate da Roberto Pellegrini. Un volume prezioso, non solo per il saggio introduttivo e le dieci schede, che sono altrettanti saggi, ma perché ricchissimo di dettagli sorprendenti. C’è anche una doppia copertina, firmata da Francesco Dondina, tra cui scegliere: il San Paolo della pala di Ascona o un dettaglio paesaggistico lacustre, incastonato nella stessa tela. A voi la scelta, in mostra a 30 franchi.

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