Serodine con la luce fa saltare la materia

Nella dettagliatissima scheda in catalogo di questo San Pietro che legge, i curatori della mostra in corso alla Züst di Rancate ricostruiscono pressoché ora per ora la vicenda collezionistica e critica dell’ultimo secolo, ammettendo «quanto è difficile sfuggire alle seduzioni della bella pagina quando si deve commentare un dipinto così».

E, in effetti, è questa crepitante tela, simbolo della Pinacoteca che la conserva e ora “illuminata” dallo straordinario contesto degli altri dipinti di Serodine che la attorniano, a chiedere che la materia diventi parola, nel tentativo di restituire, se non le emozioni suscitate, quantomeno la bellezza che ci ha folgorati. non a caso, è un’opera che ha acceso anche gli animi di alcuni scrittori come Elena Bonzanigo che, nel 1944, pubblica il suo romanzo Serena Serodine e immagina nientemeno che i celebri architetti Carlo Maderno e Francesco Borromini commentare: «Un miracolo, come hai dipinta la luce! neppure Raffaello… Dipingere la luce! Era questo, dunque? Dipingere la luce!».

Ma non occorre uscire dall’alveo della critica d’arte vera e propria per trovare le parole più fulgenti. Tra le mille citabili, s’innalzano infatti quelle di Roberto Longhi che – come accade a lui e solo a lui in tanta misura, bellezza e giustezza –, si sono attaccate indelebilmente a questo dipinto «d’un romanticismo anche più esplosivo, come una capsula di dinamite gettata in un fornello. Tutto ruota attorno alla fiamma oscillante della candela di sego che fa iride pallida nella testa e nella mano, a fibre sanguinanti, del Santo, e quasi scorteccia il tavolo, intride il muro sudicio, arrovella i fogli del libraccio e si indugia sul teschio orrendo trasponendolo in una grotta preziosa, carica di perle. Quasi si pensa al Bove squartato di Rembrandt o al moderno Soutine» (1950).

Anche i curatori di questa mostra, del resto, a sostegno di quanto affermato in apertura, dopo aver sciorinato in abbondanza ritmica e danzante i dati – quelli esatti – ci fanno ritornare nel dipinto, dove Serodine procede «rifuggendo da qualunque virtuosismo ottico e perseguendo invece, a tutti i costi, la mobile intermittenza della luce, che sembra disfare i contorni delle forme. Anche grazie al ricorso a una materia pittorica grassa e stesa in tocchi quasi tridimensionali. Serodine non ha paura di rappresentare il vuoto e l’ombra alle spalle del vecchio con campiture quasi monocrome, tra giallo, ocra e marrone. […] A un’osservazione attenta e ravvicinata si avverte però la presenza di tocchi di blu e di rosso (nella fiamma della candela e nelle mani del vecchio), che danno all’immagine un tono privo di paragoni». Che aggiungere allora su questo dipinto eseguito negli ultimissimi anni, forse mesi di vita del pittore morto a Roma nel 1630? Non ci rimane che lasciare in bocca al visitatore le sue parole, mentre sul crepitio di questa materia infuocata siamo noi a far calare il silenzio.

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