Il padre di Serodine e il rischio di ritrarlo

Nel Seicento non sono tanti i pittori che hanno ritratto i propri genitori. Rispetto a oggi, l’artista era certamente meno libero di scegliere i propri soggetti: diversi erano, oggettivamente, i tempi di esecuzione, i costi del materiale impiegato, maggiore, mediamente, la capacità persuasiva dei creditori…

Non ci si poteva permettere troppe cartucce sparate a vuoto e fare un dipinto per un committente che verosimilmente non lo avrebbe pagato, ma, semmai, ricevuto in dono, era un lusso che ci si poteva prendere solo per un motivo molto importante: il calcolo ponderato di un ritorno o un affetto raro.

È anche per questo che merita particolare attenzione questo ritratto del padre Cristoforo, dipinto da Giovanni Serodine a 28 anni, come specifica la scritta in basso a destra. Un’opera eseguita in una circostanza forse precisa, certamente ignota, e che divenne presto il dipinto più celebre e pubblicato dell’artista.

Il motivo di tanta attenzione è tutto lì da vedere: la bellezza innanzitutto materica di questa tela fa perdere il nostro occhio nei mille dettagli che la compongono: dal fondo bruciacchiato e sbertucciato della stanza, a quel foglio muto e camaleontico appeso alla parete – che sembra pronto ad esserne risucchiato senza restituirci nulla del messaggio che portava – agli attributi disposti a raggiera a trapuntare di segni il nostro effigiato: dal calamaio, al prezioso tappeto antico, dal libro aperto appoggiato su una squadra, al ventaglio o similare stretto nella mano. A voler fare i conti di linee prospettiche e anatomia, l’impaginazione del dipinto non è certo rigorosa, ma lo scoppiettio della pennellata ci tratteggia un ritratto, sontuoso e dimesso insieme, che ha una manciata di contendenti nella sua epoca in Europa. «Il tavolo, visto dall’alto, che scivola verso di noi, attraversato dal tappeto turco; il libro dove la stampa è un macchiato “visto e preso”; le mani artritiche, gonfie di umori, essudanti luce; e, dappertutto, un fare arsiccio, crepitante, rabbuffato, “senza disegno e con manco decoro”; per buona sorte della pittura che spira dove vuole». Così, ancora una volta, Roberto Longhi, il critico a cui affidarsi, nella ricerca di sentieri praticabili per il viaggio alla scoperta dei pensieri di Cristoforo, sentimenti trapelati da quel viso cresciuto a ciuffi dal pennello del pittore: ciuffi di una barba rada e di una ancor più rada e arruffata capigliatura, ciuffi di materia epidermica tassellata di bianco e di carminio puri, ciuffi di solchi per un viso disegnato a suon di impressioni affettive. È ancora Longhi, dicevamo, a parlarci di lui, Cristoforo, «complessa umanità del vecchio capomastro ticinese, scarmiglione e bohémien, impasto di Don Chisciotte e Don Ferrante, lettore non sai se dell’antico testamento o d’un libro sugli influssi stellari, ma che, di certo, ha tanto l’aria di lagnarsi dello scirocco romano che della mala sorte dei Serodine. Seduto di traverso dietro al tavolo della stanzaccia […], dove la patente di capomastro sta appiccicata con l’ostia al muro rosicchiato dai sorci, par che dica: “[…] E sarà poi questo il modo di farmi il ritratto?”»

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