L’ultimo avamposto del ’600 lombardo

Il quarto e ultimo appuntamento con la mostra di Serodine non poteva che essere dedicato a lei, la protagonista indiscussa, non solo della mostra, ma dell’intera opera del pittore ticinese. Tutta l’esposizione è stata del resto organizzata intorno a lei, nel senso più fisico del termine: è lei a determinare l’altezza a cui sono state collocate le opere, lei a far da perno, epicentro e risucchio attrattivo nel valzer prospettico dell’allestimento boeriano.

Ma è soprattutto lei l’ultima opera dipinta da Serodine e, certamente, il suo apice figurativo e affettivo. Ci riferiamo, naturalmente alla grande pala della parrocchiale di Ascona, L’incoronazione della Vergine che, non solo per vastità di campionario umano, ma per respiro emozionale e materico si pone bene quale testamento figurativo del Serodine che, di lì a pochi mesi, avrebbe lasciato questo mondo.

Ma cosa vediamo in questa meravigliosa pala?

 Lasciamo che a rispondere sia colui che ne è stato il cantore primo, per grazia di visione e scrittura, Roberto Longhi, naturalmente, di cui godiamoci le parole ecfrastiche: Serodine è «riuscito a procedere ancora di un punto, risolvendo di trattar di luce all’aperto; ciò che non era più un problema di stretta osservanza caravaggesca. Brani di paesaggio lontano, disfatti nell’ardore dell’aria, appaiono così tra le quinte dei grandi tronchi rugosi su cui si impigliano i fiotti densi delle nubi a sorreggere, nel cielo più remoto, l’Incoronazione della Vergine fra gli angeli bianchi, intenti al loro concertino di archi, legni ed ottoni. Ma, sul dinnanzi, ecco i sei Santoni all’aperto: San Giovanni Evangelista, San Pietro, San Paolo, San Sebastiano, Sant’Antonio abate, San Carlo Borromeo; salvo quest’ultimo, tutti facce di muratori, di scalpellini, di “barboni” lombardi, bruni, biondi, brizzolati e scarmigliati, in atti piuttosto generici, ma resi verissimi, convincenti dalla pulsazione scottante e macchiata della luce e dell’ombra. Il sole che punge da sinistra li tormenta, infatti, d’ogni lato, di riflessi, combattendo con le strinature dell’ombra. Mantelli e sai stazzonati, cotte crepitanti, mani che oscillano, libri a rovello macchiati di stampa. Il colmo di questo picchiettato “luministico” è, forse, nella mano destra di San Carlo; o, forse, nel terreno, tra acquitrinoso ed arsiccio, come dopo un incendio spento in furia nel radore fatto dai boscaioli o dai carbonai dell’alpe. Restano in primo piano minuzzoli di fuscelli secchi, il tricorno fiammante di San Carlo, il bastone di Sant’Antonio, la testa del porcellino nero con l’ombra vicinissima; e, al centro del quadro, la pausa candida del tovagliolo della “Veronica” con l’effigie arcaica del Salvatore: fissa, frontale, anodina come nell’autoritratto del Dürer o in qualche vecchio Cristo fiammingo».

Cosa aggiungere? Niente più che una suggestione. L’attacco di Longhi suggerisce, infatti, un accostamento non troppo ardito. La memorabile mostra longhiana Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza, allestita a Palazzo Reale di Milano nel 1958, si chiudeva con l’immagine simbolo del grande Polittico di Treviglio di Bernardino Butinone e Bernardo Zenale. Sovrailluminata e sfavillante dei suoi ori, era stata chiamata a porre un argine, quasi fisico, all’“invasione” del leonardismo a Milano che, per Longhi, non poteva in alcun modo essere considerato arte lombarda. Bene, mi chiedo se a questa pala, dipinta sul finale di quel periodo straordinario dell’arte lombarda, tra Cinque e Seicento, che da Testori in avanti chiamiamo dei “pestanti”, pittori carlini della peste, mi chiedo se non le si possa assegnare una funzione analoga di baluardo e “argine” dell’arte lombarda posta a difesa dell’invasione del Barocco. Probabilmente Testori mi avrebbe risposto, sdegnato e furente, che era la Battaglia di Sennancherib di Tanzio da Varallo, conservata nella Basilica di San Gaudenzio, semmai, quell’opera. Ma, ora che lui non può travolgermi con la sua persuasione invincibile, mi chiedo se non sia questo l’ultimo avamposto: la registrazione di un momento in cui la pittura lombarda, scrollatasi di dosso le lugubri tenebre di ori, sangue e strazi, sia uscita ad attingere al sole della pittura europea, illuminandosi quanto basta per non trasfigurarsi e rimanere in tutto per tutto materia lombarda e, quindi, terrestre

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