Nag Arnoldi. Un’eredità che ci deve interrogare

La morte di un artista dal lungo corso chiama a sé due tipi d’interventi sui giornali.

Il primo, quello veramente necessario, è il cosiddetto coccodrillo, ossia un articolo in cui ripercorrere la vita e l’opera dello scomparso. Può essere più o meno obiettivo, più o meno puntuale ma, se corretto e completo come quello redatto ieri sul GdP da Dalmazio Ambrosioni, si avrà uno strumento utile e duraturo a cui attingere negli anni. Si tratta di quegli articoli, per intenderci, che si ritagliano e conservano nella monografia dell’artista, perché verranno certamente buoni.

Poi ci sono i commenti, le precisazioni, gli aneddoti, le spuntature, i corsivi… Quei pezzi estemporanei, che cercano di dare un’idea sintetica o puntuale sull’artista, frutto di una considerazione necessariamente personale e quindi passibile di fallimento.

Chiamato a redigere il secondo genere di articolo – e non sarei stato in grado di fare altrimenti – mi limiterò a un appello. Sarebbe straordinario se i mesi che abbiamo davanti venissero usati per interrogarsi con onestà sull’eredità che lascia l’artista scomparso, nel tentativo di inserirne il lavoro in uno sguardo ampio, di contesto, fatto di rapporti di dare e avere, eredità e paternità, centralità o provincialità. Dico questo perché credo sia necessario porsi la più semplice e cruda delle domande: “Per cosa verrà ricordato, tra 50 anni, Nag Arnoldi?”

Si può immaginare una risposta più ragionata dell’etichetta “lo scultore dei cavalli”? Credo sia una domanda cui saremo chiamati a rispondere nei prossimi mesi. Una domanda urgente, anche perché il successo dello scultore in patria e la lunga carriera alle spalle sfoceranno certamente in una grande retrospettiva che il Cantone non mancherà di tributagli, immagino già entro l’anno.

Un artista ben rappresentato nelle piazze e nelle case che contano, non faticherà a trovar sostenitori, critici e spazi adeguati alla realizzazione di una fastosa antologica. Il rischio è che il desiderio di completezza si traduca in una scorpacciata in cui ogni genere, periodo e tecnica dell’artista debbano essere per forza rappresentati, senza una reale distinzione di valori e il distacco critico, necessario per selezionare, con il risultato di non aggiungere nulla alla reale conoscenza dell’artista, perché se tutto vale, nulla vale. Ecco, non è ineluttabile che vada così: Nag Arnoldi non merita questa mostra.

Occorrerà darsi il tempo e la crudeltà della cernita. Per quanto mi riguarda, ho già espresso la mia preferenza su queste pagine, circa due anni fa, in occasione della sua personale alla Galleria la Colomba di Lugano, che presentava un’ampia selezione dei suoi animali, domestici e non. Allora come oggi penso che le opere in cui Arnoldi ha cercato di tradurre in scultura un tema letterario, religioso o mitologico, ma anche solo narrativo – chissà, forse proprio per fuggire da quell’etichetta di scultore di cavalli – di quel tema, le opere, sono rimaste vittime: schiacciate da un intellettualismo che si è rivelato un fardello opprimente più che uno stimolo creativo, un limite che denuncia un procedere a rimorchio delle mode piccoloborghesi che mal si accordano con la natura più vera dell’artista. Diversa la verità che emerge intatta dal suo bestiario animale, che – quando non indugia sulla fascinazione delle patine lucide –, credo sarà l’unica destinata a rimanere importante negli anni, proprio perché espressione di una ticinesità verace, di una vitalità originale che non insegue l’inarrivabile espressionismo del padre Giacometti e del fratello Marini, ma solo il respiro umido della realtà.

Ci auguriamo insomma di rivedere a breve l’Arnoldi che ci colpì allora, quello che accetta di “attingere all’unica vera forza, la forza della vita, una vita che vien dalle cascine dei gatti che rizzano il pelo, dalle aie dei galli che si stendono nella loro straordinaria bellezza d’articolazioni, dai cavalli che si ergono nella loro bellezza palpitante tanto superiore da apparire quasi eccessiva”, selezionando “la bellissima materia bronzea dalle patine sorprendentemente colorate, dalle tensioni contrapposte che creano ritmo e scosse alla colonna vertebrale degli esseri che si snodano di fronte a lui. Perché c’è un ruggito di rozza verità che preme sotto l’epidermide spaccata di questi animali, un ruggito che chiede di venir fuori e che sbrana tutti i professorini, gli intellettualini, gli acrobatini, le fatine, i soldatini e gli eroini di cui non sentiamo la mancanza”. Ieri come oggi.

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