Tensione e poesia della materia. L’eredità di Jannis Kounellis

Da quando l’ho riascoltata qualche settimana fa, ripenso spessissimo a una frase estemporanea ma gravida d’implicazioni rilasciata con noncuranza dal pittore realista Renato Guttuso a Indro Montanelli. È il 1961 e, in una sorta di sketch umoristico allestito nello studio dell’artista, il pittore a erma: «Non credo in un valore poetico in sé della materia». Sembra poco ma è tantissimo. È una dichiarazione della propria poetica che spacca in due (almeno) l’arte del Novecento. Guttuso difendeva una pittura in cui la potenza del soggetto e la capacità di renderlo con una Forma, ossia disegno e colore, erano l’unico interesse della sua arte. Lontano anni luce, negli stessi luoghi e anni, i pittori informali, della materia, della sua ricchezza e capacità evocativa facevano un punto imprescindibile di forza. Anche la carriera dell’artista di origine greca Jannis Kounellis (1936), scomparso ieri l’altro a 80 anni, è cresciuta su una convinzione opposta a quella di Guttuso, ossia che la materia abbia in sé una valenza poetica, e di una poesia universale.

Arrivato poco più che ventenne a Roma per frequentare l’Accademia, Kounellis ci rimase fino alla morte, conservando della Grecia fisionomia e accento ma, di fatto, naturalizzandosi italiano. La sua prima produzione venne definita Pop, assimilandola alla versione nostrana ma non provinciale di questo “gusto” americano, esplosa negli stessi anni grazie all’opera dei cosiddetti pittori romani di Piazza del Popolo – Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e, soprattutto, Mario Schifano. Al di là delle apparenze, in realtà, i suoi quadri con grandi lettere nere su fondo bianco non avevano nulla a che spartire con le scritte che avrebbero reso celebre Schifano, si trattava di poesie fonetiche, di una lirica delicata che di Pop non aveva nulla, così come dimostrava la raffinatezza impalpabile e sofisticata delle sue “rose” nere ritagliate su fondo bianco e viceversa, ora esposte al milanese Museo del Novecento (1964 e 1967).

Gli anni Sessanta sono gli anni in cui Kounellis diventa uno dei protagonisti di un’altra corrente, l’Arte Povera teorizzata e coordinata dal critico Germano Celant, un movimento tutto italiano, da molti anni ormai protagonista dei musei, del collezionismo e del mercato di tutto il mondo, oggetto di un duraturo apprezzamento internazionale che, per l’arte italiana del Novecento, è equiparabile solo al Futurismo.

Per Kounellis l’uscita dalla costrizione del dipinto, concise inizialmente con il successo d’installazioni performative, come la celebre esposizione di cavalli vivi alla Galleria l’Attico di Roma (1969), fino alla consacrazione del suo mito con la partecipazione alla Biennale veneziana del 1972. Negli ultimi decenni, nel lavoro di Kounellis hanno preso il sopravvento alcuni materiali tratti dalla vita domestica e dal lavoro, cui affidare la propria poetica: lamiere, vestiti, mobili, carbone… La poesia della materia appunto, capace di restituire al visitatore tutta la potenza di valori collettivi, attraverso la sensazione del peso delle putrelle, l’odore del carbone, e, soprattutto, l’umanità di cui le scarpe e i cappotti usati si fanno simbolo reiterato, quasi ossessivo, nel suo essere riproposto mentre è minacciato o stritolato dalla lamiera: bellissima nelle sue patine azzurrate, ma terribile nella sua natura costrittiva e imprigionante. Non quadri, ma neanche (solo) sculture. Sono teatri immaginari in cui non è la trama a essere importante ma la Storia, quella universale. È proprio la tensione che crea con l’accostamento dei materiali uno degli elementi maggiori della sua forza, capace di emozionare e coinvolgere lo spettatore com’è impossibile immaginare da una riproduzione fotografica. A Kounellis non interessa raccontare una vicenda particolare ma neanche una tensione sociale o collettiva in genere, egli puntava all’universale, arrivando a parlare all’uomo, richiamandolo alla verità della sua natura, delle sue tensioni, delle sue bellezze e ferite. Fino alla Croce, sempre più presente nella sua opera, non come simbolo, ma come varco della tradizione che preme sull’arte del presente. Non è un caso che, nelle sue interviste, tornino spesso riferimenti all’arte del passato, così da ritrovare una citazione caravaggesca nei “tagli” di Lucio Fontana o riconoscere nelle Madonne di Tiziano “l’origine di tutte le libertà per un pittore”.

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