Negato perché c’è

Per il Natale alle porte, facciamo un passo in avanti verso un’immagine che ci parla di vertigine e d’abisso. Si tratta di ciò che resta di una tela conservata alla Galleria degli Uffizi, dipinta dal pittore olandese Gherardo delle Notti (Gerard van Honthorst), un caravaggesco specializzato in scene a lume di candela. Del grande dipinto si propone qui la metà inferiore, sovrastata da un volo di angioletti che occupano l’altra metà.

Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, l’esplosione di un’autobomba in via dei Georgofili diede corso a un violentissimo spostamento d’aria che travolse il dipinto, facendo crollare al suolo la maggior parte dei pigmenti di colore e devastandolo completamente. Nel terribile attentato di mafia andarono distrutti altri sei dipinti, ne furono gravemente danneggiate alcune decine, e, soprattutto, persero la vita la custode dell’Accademia dei Georgofili, suo marito, i figli di 9 anni e 50 giorni e uno studente poco più che ventenne. Una pagina tragica delle stragi di mafia in Italia, in cui, meno di un anno prima, avevano perso la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il dipinto, che per anni fu dato come irrimediabilmente perduto, dopo il restauro del 2002 è diventato il simbolo della sopravvivenza dell’arte e della vita all’assurda atrocità della violenza umana. Ma è molto di più, un’immagine potentissima, destinata a caricarsi di significati, paragonabile solo al Cristo macchiato di sangue umano dell’attentato alla Chiesa Copta di Alessandria d’Egitto, diventato il volto dei martiri cristiani di oggi.

Ciò che ci spiazza in questa Natività è il suo essere ferita ma non cancellata, tanto da poter azzardare che, in un certo senso, ne abbia guadagnato in verità. Il dipinto di Gherardo delle Notti, infatti, era una dolcissima Adorazione dei pastori, capace di restituirci la tenerezza della nascita di un Bimbo, il sorriso compiaciuto di una giovane Madre, il passo indietro di un Giuseppe sul crinale delle sua paternità putativa e la gestualità dei pastori che traccia la via dello sguardo stupito e felice nel quale cercano di coinvolgere lo spettatore. Ma, diciamolo pure, in sé il dipinto, negli affanni di questi giorni, rischiava di strapparci appena un sorriso distratto di gratitudine, o poco più. La sua violenta “trasfor- mazione”, al contrario, lo spinge a forza contro la nostra retina, tagliando in un balzo secoli di distanza. Con la ruvida e graffiante verità della sua ferita, ci racconta di un trauma che, insieme ai pigmenti, ha lasciato cadere ogni orpello, ogni concessione al superfluo, per ridursi all’osso di ciò che rappresenta. È così che perfino la completa sparizione del Bimbo, fonte di luce del dipinto, ci obbliga ad avvicinarsi a questa storia per cercarne il protagonista. Il volto negato di Gesù, lo ritroviamo allora riflesso in quello sfregiato di Maria e, da lei, in quello di Giuseppe e dei pastori. I gesti si sono asciugati dalla retorica e, nella loro drammaticità, si ergono a sintetico palinsesto del nostro esserci di fronte all’accadimento. Al nostro cospetto c’è una nuova opera d’arte, che probabilmente supera anche le più riuscite e rispettose rivisitazioni contemporanee della pittura sacra del passato (Arnulf Rainer). E che l’autore, insieme a Gherardo, sia la cieca brutalità umana, ci mette di schianto di fronte al mistero della libertà umana e allo scandalo di Chi è venuto a salvar ogni gesto. Ecco allora davanti a noi un Cristo già ferito, un Cristo negato, un Cristo cancellato, ma che si fa misteriosamente presente, di cui, proprio come l’amata o l’amato, sentiamo la mancanza perché c’è. Quest’Adorazione diventa così il miglior augurio possibile, per un Natale di verità, a cui poter partecipare con tutte le nostre cicatrici, le nostre lacune e le nostre mancanze, di colore e di vita.

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