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Quel fiore che ti precede. Van Gogh

Era l’inverno del 1890 e la storia breve di uno dei più celebri pittori al mondo stava drammaticamente volgendo al termine. Erano passati solo cinque anni dai Mangiatori di patate, eppure, di lì a pochi mesi, Vincent Van Gogh si sarebbe tolto la vita al colmo del più irrecuperabile dei numerosi attacchi depressivi che lo afflissero.

Nella tasca, solo una lettera mai spedita all’amato fratello Teo: «Per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione».

Eppure, il 31 gennaio di quell’anno, il sole, oltre il vetro dell’ospedale psichiatrico di Saint Remy, dove aveva deciso di autointernarsi, aveva un colore inaspettatamente nuovo. Era bastata una lettera del fratello, così diversa da tutte le altre: «[Oggi] Jo ha partorito un bellissimo bambino, un piccolo che piange molto ma ha un aspetto sano. Gli daremo il tuo nome, e ci auguriamo sinceramente che sarà perseverante e coraggioso come te». Una notizia gioiosa era sbocciata in un segno di affetto e di profonda stima che Vincent non si sarebbe mai aspettato. «Ho immediatamente iniziato un quadro per lui (il piccolo), che potrebbe stare nella sua camera, grandi rami di mandorlo in fiore contro un cielo blu…». Così scrive alla madre quindici giorni dopo, comunicandole il regalo che stava preparando al nascituro: è il dipinto qui riprodotto, che fece presto sfoggio di sé, sul camino della casa di Theo e Johanna a Montmartre; «il dipinto migliore che ho fatto, quello a cui ho lavorato con più pazienza e con più calma». Un unicum nella produzione di Van Gogh, nato da un fatto straordinario che accordò al pittore un momento molto circoscritto di pace, seguito presto da una ricaduta, che gli impedì di dar vita a una serie di dipinti analoghi, come accadde per altri soggetti così riusciti. Quando si riprese dall’ennesimo attacco di depressione, infatti, era troppo tardi: «Se fossi stato in grado di andare a lavorare, avrei fatto altri alberi in fiore. Ora gli alberi in fiore non ci sono quasi più, davvero non ho fortuna». E, in effetti, aveva perso l’ultima occasione: per lui, un’altra primavera non sarebbe arrivata.

Una speranza inattesa

Chissà se Van Gogh si sarebbe mai accorto di quei rami fioriti se il suo cuore, e i suoi occhi, non fossero stati aperti dalla nascita di un nuovo Vincent, a cui a dare il proprio desiderio di riscatto e la speranza di una vita felice. Un piccolo ramo di mandorlo in vaso lo aveva già dipinto, certo, ma niente a che spartire con questo trionfo di bellezza.

Stiamo di fronte all’immagine di questo dipinto stupefatti, inseguendo la pennellata di Vincent che ne tornisce i rami e ne ingemma i boccioli, traforandone i contorni su un fondo di un azzurro dolcissimo e tenue, perché terso di pace: un quadro ricamato con la sgorbia, per dar corpo alla suggestione lontana ricevuta dalle stampe degli amati artisti giapponesi, «che vivono in natura come se essi stessi fossero fiori».

Il primo a fiorire

Ce ne sarebbe in abbondanza per fare di questo quadro l’immagine perfetta per la rinascita della Pasqua. Ma il dipinto, e il suo soggetto, si caricano di un’ultima densa suggestione, grazie ad un’immagine che papa Francesco ha ripetuto più volte negli ultimi due anni: «Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da Lui a chiedere perdono, ma quando noi andiamo, Lui ci aspetta, Lui è prima! […] Il Signore è come il fiore di mandorlo, il primo fiore della Primavera (cfr Ger 1,11-12). Prima che vengano gli altri fiori, c’è lui: lui che aspetta. Il Signore ci aspetta. E quando noi Lo cerchiamo, troviamo questa realtà: che è Lui ad aspettarci per accoglierci, per darci il suo amore. E questo ti porta nel cuore uno stupore tale che non lo credi, e così va crescendo la fede! Con l’incontro con una persona, con l’incontro con il Signore».

Sembra violento affiancare questo dipinto alla frase del Papa, pensando a quanto fosse lontana, per il pittore, l’esperienza di questa metafora… Ce ne scusiamo con pudore. Ma proporlo è l’unico modo che abbiamo per riaffermare che l’unicità di questo quadro di Van Gogh, la fragile felicità che l’ha generato e l’epilogo sfortunato che incombe in un orizzonte di mesi così vicino non possono annullare in noi la gratitudine perché questo capolavoro c’è. Perché un dipinto così straordinario s’impone a noi a dimostrazione lampante che, quando accade qualcuno, la sofferenza vissuta, la malattia subita e la costrizione obbligata non sono capaci di dire l’ultima parola sull’uomo che le vive, di annullarne la capacità di stupore, di impedirgli di creare qualcosa d’eccezionale e di regalarcelo per sempre.

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