ArtBasel – Le regole di un gioco che non delude mai

“Ah quindi è una fiera, cioè sono in vendita? Non pensavo ci fossero quadri di Picasso, Rothko, Matisse o Monet, che si possono ancora comprare”. A chiunque bazzichi il mondo dell’arte, in passato, è capitato di sentirsi rivolgere affermazioni come queste. Frasi che oggi apparirebbero un po’ troppo sprovvedute, espressione di un’ignoranza non verso il mercato dell’arte, ma verso la spicciola cronaca scandalista da free press che, a cadenza regolari, spara in prima pagina l’eclatante risultato d’asta, il nuovo record o passaggio di proprietà multimilionario di turno. Ci siamo abbastanza assuefatti al numero incredibile di zeri con cui vengono valutate le opere d’arte contemporanea e i soliti nomi – Andy Warhol, Gerhard Richter o Jeff Koons – continuano a bruciare i propri record in un’escalation che sembra inarrestabile. Da 20 anni ci diciamo: “Ma dai è impossibile! Non potranno continuare a salire così, primo o poi scoppierà tutto”. Considerazioni ragionevoli, ma fatto sta che, se non sappiamo cosa succederà domani mattina, è certo che vent’anni sono un’infinità di tempo, soprattutto per chi fa affari e deve far fruttare i propri (o altrui) capitali, e in anni di economia difficile, in cui è veramente arduo rintracciare forme d’investimento tanto redditizie.

ArtBasel: il fenomeno

È in questo contesto che occorre guardare ad Art Basel, uno degli eventi culturali e commerciali più importanti dell’anno, non solo per la Svizzera: indiscutibilmente è la più importante fiera del settore al mondo. In questa settimana di giugno, tutti gli occhi dell’arte sono puntati alla cittadina che riempie l’aeroporto trinazionale di Jet da tutto il globo. Il giro d’affari è difficilmente quantificabile, anche perché l’effetto sulle vendite le gallerie lo registrano almeno per i sei mesi successivi, ma il valore complessivo delle opere presentate si calcola in miliardi di franchi. D’altronde, le gallerie che espongono sono quasi trecento, da 33 paesi del mondo, gli artisti presentati oltre 4.000 e i visitatori quasi 100.000. Visitatori con portafogli, naturalmente, visto che, nei frenetici giorni di anteprima a inviti, opere da milioni di euro si sono vendute in pochi minuti. Miliardari Russi o cinesi, responsabili di fondi d’investimento cui sarebbe impossibile attribuire una nazionalità, certamente, ma anche grandi istituzioni pubbliche e musei – oltre 80 quelli accreditati – che hanno acquistato per le proprie raccolte.

Per chi non compra

Naturalmente, tutto questo giustifica, spiega ma non esaurisce il fenomeno Art Basel, perché, su centomila, novanta salgono in macchina o sull’aereo ben sapendo che l’unica cosa che potranno comprare, a caro prezzo, è il bratwurst allo sciccosissimo chiosco del giardino sintetico, al centro della fiera.

L’appuntamento è obbligato per chiunque voglia capire cosa sta accadendo, cosa c’è di nuovo e cosa si sta consolidando nell’arte di oggi. Naturalmente non è il luogo di una proposta culturale nel suo complesso, visto che la logica è e deve rimanere commerciale, com’è nella sua natura. E non sono certo le installazioni in giro per la città, le dotte conferenze a tema al suo interno o le nobili campagne di crowdfunding a sottrarsi a tale logica e natura. Anche le operazioni apparentemente coraggiose, come certi stand monografici senza, o quasi, opere in vendita o realisticamente vendibili, sono fatte per creare un rinculo di vendite alla gallerie, che da tali operazioni ricevono immediato accredito e le attenzioni degli acquirenti rimasti impressionati. È così che Tornabuoni, storica galleria italiana con sedi ormai in numerose città europee, proprio al suo debutto ad Art Basel, può permettersi di presentare unicamente una sequenza di quattro opere di Paolo Scheggi, di cui, verosimilmente, solo una in vendita, ricostruendo per la prima volta, anche grazie a un prestito museale, una parete presentata dall’artista alla Biennale del 1966. Naturalmente, è grazie a questa “coraggiosa” operazione che il gallerista è riuscito a vendere una decina di opere che non ha neanche dovuto esporre in fiera… Per non parlare di operazioni più esplicite, come la presentazione d’installazioni monumentali nell’apposita sezione della fiera, Unlimited, non tanto perché vengano acquistate da grandi collezionisti o musei, ma perché facciano da volano alla vendita di pezzi, dimensionalmente, più abbordabili nel relativo stand.

 

Bilanci

La vastità ed eterogeneità di un evento del genere rende velleitario un tentativo di sintesi sulla manifestazione che non sia legato ai numeri per cui è nata, e non mancano resoconti dettagliati delle cifre di vendita, dove scoprire, senza sorpresa ma non senza un certo senso d’inquietudine, che uno dei più famosi galleristi al mondo, Gagosian, ha totalizzato con tre opere 15 milioni di dollari d’incasso o che un dipinto di Joan Mitchell, nome ben lontano dal raggiungere i tabloid o i free press di cui sopra, è stato venduto a pochi minuti dall’apertura per 6 milioni di dollari.

Difficile, al contrario, esprimere giudizi di merito: la qualità media era più bassa o più alta dello scorso anno? Più pittura? Non c’erano meno videoinstallazioni? I giovani mi sembrano sempre gli stessi, che dici? Poco più che chiacchiericcio, impressioni, sensazioni personali e poco più. L’unico bilancio possibile è sempre lo stesso: Art Basel non delude mai. Perché guardandone gli artisti proposti – e i nomi dei proponenti… – è possibile mettere a fuoco molti rapporti di dare e avere tra mostre e mercato, seguendo la strada percorsa senza soluzione di continuità tra la Biennale di Venezia 2013, Art Basel 2014 e la Biennale 2015 o tra Art Basel 2015 e la prossima mostra alla Tate Modern di Londra e all’Hangar Bicocca di Milano. Un bagno di realismo, insomma, che ti rende un pochino più consapevole e quindi libero di non ingurgitare, per forza, valori assoluti di grandezza decretati da altri.

Fulgore

Ma Art Basel non delude per un motivo più grande di questa, non banale, conquista di consapevolezza. E non solo perché è l’occasione di vedere opere importantissime di artisti non ancora diffusamente rappresentati nei musei, quanto meno in quelli a portata di macchina… Non delude perché su tutto, su ogni logica di mercato, anzi dentro ad essa, bevendola o surfandoci sopra, l’arte e gli artisti continuano a parlarci: l’opera spacca ogni logica e continua a raccontare, interrogare, scuotere e commuoverci. È una costatazione di speranza che ti fa guardare con strafottente libertà al tuo portafoglio inadeguato e, con minor invidia, al possessore materiale di un’opera che non potrai contemplare nel tuo salotto, ma che hai potuto spremere per un fugace ma indimenticabile momento, carico di un amore fanciullesco, fragile o istintivo forse, ma non meno arricchente, indimenticabile e tuo.

In fondo, è più facile abituarsi alla presenza di un’opera ben collocata sulla testata del letto, tanto da dimenticarsi totalmente che esista e meriti una qualche attenzione, che archiviare il fulgore di un’impressione indimenticabile, scordare l’innamoramento istantaneo per una foto come quella realizzata da Ryan McGinley: un Giacobbe spaventato ma eroico, nudo e ferito dalla natura che lussureggia intorno e per lui. E chissà se potremo dire di non aver sentito il grido disperato della contraddizione espressa dall’opera di Kader Attia Primavera Araba: una serie di teche infrante con una performance e rimaste come un relitto vuoto a memento del saccheggio del Museo del Cairo e delle attese deluse del movimento rivoluzionario. E sono tante le opere da ricordare, naturalmente diverse per ognuno, come, giusto per citarne almeno una terza, l’esposizione delle enormi pentole recuperate in mercatini e accampamenti beduini del Sud Arabia dall’artista Maha Malluh: così carichi di storia e tradizione e capaci di portarsi dietro, nella loro apparente afasia, la voce di un popolo e di un’umanità che sembra di sentire presente e in vita, più che rappresentata.

In alto, un’immagine della performance che ha generato l’opera di Kader Attia “Arabian Spring”; sotto, un dettaglio di “Food for Thought ‘Almuallaqat’” di Maha Malluh; a sinistra, “Jacob”, del fotografo Ryan McGinley; sotto, lo stand della galleria White Cube, con l’opera di Damien Hirst, “Something and Nothing”.

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