Diario londinese 7. Arte e immagine

Siamo ormai alla settima pagina del nostro “Diario londinese” e al terzo dei dialoghi sull’arte contemporanea.

Nel tentativo che ci siamo posti di dare ai nostri lettori qualche coordinata in più per avvicinarsi all’arte d’oggi, senza la pretesa di sostituirci all’incontro personale con l’opera, il discorso non poteva esaurirsi nel diapason tra arte figurativa e arte astratta. Come negli altri casi, la recensione di una mostra in corso a Londra ci ha permesso di presentare il padre della corrente artistica di cui volevamo parlare: dopo Bacon e l’arte figurativa, dopo Rothko e l’arte astratta, eccoci a Warhol (sabato scorso) e all’arte dell’immagine: più che una corrente artistica, un presupposto sotteso a gran parte dell’arte che ci circonda, dagli anni Sessanta in poi.

Francesco Gesti – Parto da un esempio. Da qualche anno lavoro in una libreria nel centro di una piccola provincia lombarda e sempre, quando si avvicina il Natale, sono un testimone affascinato di come la gente, in ogni caso, acquisti di tutto. Giusto la scorsa domenica, però, abbiamo tentato un esperimento d’avanguardia che ha – occorre dirlo – i tratti della scoperta dell’acqua calda. Abbiamo riempito la vetrina con una quantità di copie dello stesso libro pop-up tutto bianco. Nel corso di quello stesso pomeriggio il volume è andato esaurito. Allora: se mostri una cosa bella, piacerà a qualcuno; se la mostri tante volte, piacerà certamente a tutti. Davvero è l’acqua calda, e qualsiasi pubblicitario può sorridere bonariamente di questo aneddoto della provincia, ma rimane un episodio sintomatico. Dopo la fotografia, l’arte ha dovuto affrontare la pubblicità e tutti i mezzi di comunicazione visiva e televisiva che questa ha messo in campo. Anche qui molti si sono perduti e sono stati incapaci di realizzare immagini altrettanto potenti; gli artisti più grandi, invece, hanno saputo usare questi meccanismi, traendo dalla sproporzione un vantaggio. Per questo Warhol è forse il più potente padre dell’arte contemporanea, perché, esattamente come nel linguaggio pubblicitario, ha usato le produzioni in serie come mezzo comunicativo, per esaltare l’immagine e non per appiattirla.

D. D. – La pubblicità è l’anima del commercio e anche gli artisti si adeguano pur di “bucare”, di cogliere l’attenzione del pubblico, utilizzando i mezzi che il pubblico ri-conosce. C’è, nella serialità delle Marilyn o Lattine, una volontà di amplificare con la ridondanza il valore e la bellezza della realtà che ci circonda, non una volontà nichilista di inflazionare, e quindi denigrare, la realtà stessa. Warhol sa cosa funziona e cosa no, conosce la potenza delle immagini e la usa per farci guardare intorno, toccando spesso punte liriche eccezionali, certo di una poesia nuova, ma così nostra! La cosa non dovrebbe stupire, visto che, proprio in una vita estrema e folle, Warhol rimase sempre cattolico, e non poteva che partire da una passione incontrollata, da bambino, per tutto ciò che lo circondava. È nata così una nuova strada…

F. G. – C’è stata una generazione di creativi, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, che ha attraversato gli Stati Uniti in adorazione della grafica dei fumetti, delle scritte al neon e delle gigantografie degli attori appese sopra le sale cinematografiche in città; dei marchi sui frigoriferi delle bibite nei diners e delle insegne delle stazioni di servizio che si potevano incontrare anche nella provincia più lontana dalla patina glitter e up to date di Broadway… Dove in passato si era cercato un linguaggio alternativo alla fotografia, che potesse restituire un’immagine rivelativa del reale, Warhol, Lichtenstein, Oldenburg – tutte persone certamente dotate di un’autoironia che agli espressionisti astratti, per esempio, mancava – hanno scelto di utilizzare lo stesso linguaggio del “nemico”; hanno vinto lo scontro, in un certo senso, evitandolo, o rendendolo divertente. Dal punto di vista della concezione del lavoro artistico è stata una soluzione profondamente rivoluzionaria, semplice e sconcertante, e che ha livellato tutte le differenze fra l’alto e il basso, fra una elite culturale e la massa; anzi: fra il linguaggio dell’élite e quello della massa. La comparsa di artisti che, ammirando la potenza comunicativa delle immagini pubblicitarie, si sono detti «questo linguaggio funziona, è efficace; bene: usiamolo anche noi».

D. D. – Non solo la pubblicità è stata presa a modello, ma tutto ciò che è comunicazione, che sa arrivare all’attenzione del pubblico. E bisogna dire che in questo inseguimento non tutte le opere d’arte prodotte hanno la forza e la genuinità di Warhol; spesso il confine tra arte, provocazione e immagine vuota è molto labile…

F. G. – C’è ancora una predominanza della fotografia di moda: la fotografia perché ha tempi di esecuzione più brevi della pittura; e la moda perché ha una natura particolarmente affine al vocabolario dell’apparenza, della superficie. Così negli ultimi tempi si sono avvicendati i lavori ambigui nella definizione di genere, o piuttosto ambivalenti, di Richard Avedon, Helmut Newton, Oliviero Toscani o David Lachapelle – e qualcuno di loro era anche passato, giovinetto, dalla Factory di Warhol… E in termini di comunicazione, poi, è arrivata la televisione. Su questa sponda dell’Atlantico, viene in mente Mario Schifano che in quegli anni assumeva come linfa la logorrea visuale dello schermo e la comunicazione continuamente interrotta dello zapping, trasformandola in pittura suprema. Gli schermi sempre accesi nello studio, la telecamera sempre a portata di mano, le Polaroid scattate alle trasmissioni televisive: era una tipologia di immagine ipertrofica che Schifano, quasi alla lettera, mangiava.

D. D. – Ma Schifano, uno dei più grandi artisti italiani del secolo scorso, è stato anche un caso unico, una specie di mostro di velocità e dedizione, che lavorava giorno e notte, tutti i giorni, con un ritmo sfiancante, e, tutto sommato, da solo. In moltissimi artisti contemporanei, invece, la libertà di questo nuovo linguaggio ha necessariamente rimesso in discussione anche il procedere della produzione artistica. Era necessaria un’alta dose di spregiudicatezza, una libertà a 360 gradi di attingere da ogni aspetto del reale, di non disdegnare neanche il trash, di sapere anche giocare, oltre che denunciare o insegnare. Ma facendo proprie nuove tecniche, dovendo sfruttare al massimo la ripetitività, e la più ampia visibilità possibile, l’artista aveva anche bisogno di una “Factory”, di una squadra di assistenti. In un certo senso è tornato ad avere una “bottega”, ma con la fondamentale differenza che non esiste più l’opera del maestro e quella di bottega, di valore enormemente minore. Tutta l’opera che esce dalla fabbrica è “del” maestro, anche se lui l’ha solo ideata e non realizzata.

F. G. – Se la parabola del pop è conclusa e storicizzata, circoscrivibile a un preciso decennio o ventennio, gli elementi di quel pensiero operativo sono ancora in atto a diversi livelli di tutto il sistema dell’arte contemporanea. È emblematico il caso degli “Young British Artists”, comprati in blocco all’inizio degli anni Novanta da Charles Saatchi (pubblicitario di professione, quello della Saatchi&Saatchi), lanciati come ultimo movimento del millennio, esposti nella sede della Saatchi Gallery alla County Hall, sul lungotamigi, proprio alle spalle del London Eye, la ruota panoramica dove migliaia di turisti quotidianamente si mettono in coda…

D. D. – E siamo giunti all’ultima grande star dell’arte, forse il più celebre artista vivente, che non a caso abbiamo scelto per il logo di questi Diari londinesi.

F. G. – Fra questi artisti, senza dubbio il più geniale e completo, il più emblematico – quello in cui più chiaramente si comprende di che portata siano le trasformazioni intervenute nel lavoro artistico dopo avere inglobato il linguaggio dell’immagine pubblicitaria – è Damien Hirst. E se – a ragione – è considerato il Re Sole dell’arte contemporanea, lo è per alcune ragioni molto precise. È l’apoteosi dell’ideazione e della progettazione; è probabilmente il più grande e il più sensazionalista dei producers, che si è circondato della più nutrita equipe di assistenti specializzati che realizzano idee apparentemente irrealizzabili. Se esteticamente è l’erede di Bacon, con la sua ossessione per la morte, operativamente è senz’altro erede di Warhol; e come Warhol aveva a suo tempo intuito che una lattina di zuppa poteva essere un soggetto efficace, Hirst ha intuito che, per rappresentare uno squalo, niente poteva essere più efficace e sensazionale di uno squalo tigre vero. Bastava trovarne uno; bastava far realizzare la teca di vetro (baconiana) che lo contenesse; bastava una soluzione di formaldeide per conservarlo. Già, ma passare poi dall’idea all’opera? Ecco dove risiede esattamente il punto della genialità “gestionale” di Hirst: è forse più un talento imprenditoriale applicato all’espressione artistica, il suo.

D. D. – Alla fine si direbbe che il gioco vale la candela (all’italiana) o il Santo vale la candela (alla ticinese)… Il suo Squalo rimane l’immagine più dirompente della presenza della morte nella vita di ognuno di noi. Non è possibile spiegare meglio, a parole o con altre immagini, la contraddizione assoluta che sta nell’uomo: che spende tutte le sue energie per la vita e deve fare i conti con la morte; fa finta di niente, cerca di non pensarci, ma lei, prima o poi, s’impone, agghiacciante come uno squalo di cinque metri in salotto.

Scarica l’articolo in pdf

Leave a Reply