Diario londinese 8. Scultura al British

Al British Museum siamo riusciti ad arrivare soltanto alla fine – dopo un houmous wrap, spremuta d’arancia e caffé large da Starbucks – in un dopopranzo naturalmente grigio, con un cielo naturalmente basso e una luce freddina sul corso naturalmente torbido e marrone del Tamigi, con bagaglio alla mano e una mezzoretta appena a disposizione prima di dover lasciare Londrra. Mentre entravamo in volata, ci passava davanti agli occhi la sequenza di un’altra corsa tra le sale di un museo. Ma Londra non è Parigi, e l’immagine della giovinezza di Odile, Arthur e Franz che attraversano le sale del Louvre in Bande à part di Jean-Luc Godard, e poi nel Dreamers di Bertolucci, è solo un accostamento formale. Passato lo scalone d’accesso su Great Russell Street, nell’atrio veniamo accolti e bloccati dall’apertura alare di Case for an Angel I, la statua in fibra di vetro e piombo di Antony Gormley, una figura umana a grandezza naturale del tutto priva di dettagli fisiognomici e anatomici – tanto da assomigliare, nella sua stilizzazione vagamente America fine Venti, alla statuetta degli Oscar – che ha due enormi ali d’aeroplano al posto delle braccia, per un’estensione di otto metri e mezzo proporzionatissima allo spazio che la ospita, e che rimanda eco dalle crocifissioni cristiane come dai tori alati della Mesopotamia che si trovano nelle sale interne. L’opera di Gormley introduce l’esposizione temporanea Statuephilia, un progetto che invita cinque fra gli artisti più rappresentativi della scena britannica contemporanea ad esporre le loro sculture o installazioni perché intrattengano un dialogo con gli ambienti e i pezzi della collezione archeologica del British Museum.

Sotto le ali di questo monumento insieme trionfale e funebre, nella penombra dell’atrio, si accentua il senso di una certa sacralità, come se la statua fosse stata messa lì con l’intento di sottolineare ancor più esplicitamente il fatto che stiamo varcando le soglie di un tempio; dall’altra parte, ci avvolge la luce naturale e amplissima della piazza interna, la Great Court voltata in vetro e acciaio da Norman Foster. Sostiamo appena davanti alla Stele di Rosetta, davanti ai colossali Tori assiri della fortezza di Sargon II, davanti ai fregi del Partenone perché, per quanto di fretta, non è possibile passare fingendo di non vederli… Qualcuno dei visitatori sarà giunto fin qui per una delle due immagini di morte: i duecento teschi iper colorati di Damien Hirst collocati nei cabinets ottocenteschi come reperti tra i reperti, e i due ammassi di animali semidecomposti, allestiti da Tim Noble e Sue Webster, che ricreano sul muro l’ombra cinese di due teste sgozzate. Ma il nostro pellegrinaggio onora il culto di altre divinità: il “vitello d’oro”, al cui cospetto immaginavamo una folla china e adorante, e quel “volto gigante”, trasudante dell’amore del suo creatore.

Ron Mueck

Ci sono amori figurativi a cui speri di poter dedicare infinite occasioni di contemplazione, emozione e racconto. L’eternità di amori come questi è il loro perdurare come momenti indimenticabili, fissi per sempre, compagni di quella manciata d’esperienze care che hai la ferma convinzione di portarti accanto tutta la vita. Uno di questi amori totalizzanti me lo ha procurato l’opera dell’artista australiano Ron Mueck. Si tratta di uno scultore della nuova generazione britannica che sta strabigliando il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, con le proprie sculture iperrealiste che riproducono uomini, donne e bambini, sempre fuori misura: o molto grandi o molti piccoli. Grazie alle tecniche raffinate negli ultimi trent’anni, in ambito scenografico e cinematografico, non sono mancati scultori contemporanei capaci di riprodurre con impressionante verosimiglianza il corpo umano, fino a restituire l’esatta consistenza dei peli o della pelle del viso. Già altri hanno saputo divertire e affascinare rappresentando persone a grandezza naturale, atteggiate nei relativi mestieri. E infatti non è questo a rendere indimenticabili le sculture di Mueck. La variazione di dimensione – come la neonata di 5 metri o la coppia di vecchiette alte mezzo metro – è un ottimo espediente attraverso il quale l’artista dichiara come non sia l’imitazione del reale a interessarlo e, tanto meno, la finzione il suo obbiettivo. Ciò che Mueck riesce a rappresentare è la creazione stessa. Non solo la creatura, ma la creazione.

C’è un modo di scegliere i soggetti, una tenerezza di sguardo sulle cose semplici della vita, che sono frutto di un’attenzione amorevole che l’artista ha per le sue creature. Un amore discreto, direi pudico, con il quale forgia immagini dove la poesia sta dalla parte dello straordinario quotidiano. Non mi viene in mente nessun altro scultore contemporaneo che abbia saputo catturare così la poesia della realtà insita nell’uomo in quanto tale e, con essa, la grandezza della vita. Credo che questo sia possibile solo per chi mantiene uno sguardo da “creatore” sull’uomo. C’è impressa, sulle sue opere, una carezza di chi, generandoli, sa prendersi cura dei propri figli, come dimostrano alcune fotografie di lavoro, tra le quali la struggente immagine di Mueck che fa la messa in piega ad una sua gigante donna a letto. Traspare da quella foto tutta la cura amorevole dell’artista, capace di generare opere assolutamente reali, ma mai ciniche, mai impietose, espressione di una delicatezza da Padre, appunto. E non vi sembra miracoloso che, come dimostra l’opera qui riprodotta ed esposta al British, questa tenerezza creaturale riesca a mantenerla intatta anche nel raffigurare la persona che normalmente l’uomo fa più a fatica ad amare: se stesso?

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