Diario londinese 9. In exitu Hirst

Guardando indietro, al nostro piccolo “Diario londinese”, devo dire che di temi ne abbiamo sollevati tanti e speriamo di aver dato ai nostri lettori qualche coordinata in più per affrontare l’arte del nostro tempo. In questa ultima puntata, che cade simbolicamente nell’ultimo giorno dell’anno, ci eravamo ripromessi di fare un consuntivo-preventivo sul tema. In realtà, pezzo dopo pezzo, è apparso chiaro che, in questa straordinaria storia che è l’arte contemporanea, siamo talmente immersi che la storicizzazione tentata finora è costretta, con l’avvicinarsi degli anni, a lasciare il passo alla semplice segnalazione empirica. Cerco di spiegarmi. Partendo dalle esposizioni londinesi, abbiamo cercato di dare qualche paletto ai nostri lettori nel complicato viaggio attraverso l’arte del secondo Novecento. Abbiamo proposto tre grandi maestri: Francis Bacon (15 novembre), Mark Rothko (29 novembre) e Andy Warhol (13 dicembre), approfondendo le rispettive ripercussioni della loro opera sull’arte a seguire: l’Arte Figurativa (19 novembre), l’Arte Astratta (3 dicembre) e l’Arte-Immagine (17 dicembre). Ad ogni approfondimento abbiamo proposto tre opere viste ad una delle fiere d’arte contemporanea più importante del mondo, il Frieze di Londra, anch’esse rappresentative delle tre correnti ed eseguite da autori, Jenny Saville, Anish Kapoor e David Lachapelle, che sembrano tenere il passo con la modernità dei loro maestri. Infine, sabato scorso (27 dicembre), abbiamo fatto un excursus, necessario, sulla scultura contemporanea inglese: Antony Gormley, Tim Noble e Sue Webster, Marc Quinn, Ron Mueck e, naturalmente, Damien Hirst.

È proprio con Hirst che vogliamo chiudere questo anno e questo “Diario londinese”. Hirst è forse l’ultimo grande figlio dell’Arte-Immagine, ma è certamente un figlio anche di Bacon… Dopo di lui nasceranno certo altri epigoni del gusto dell’eccesso, ma c’è da credere che il punto di incontro tra raffinatezza dell’immagine e ossessione per la morte toccato dalla sua opera, si sia assestato ad un livello difficilmente superabile, condannando coloro che si ostineranno a restare sulla strada del sensazionalismo, ad essere semplici imitatori. E non è poco. Ma sono diversi i motivi della nostra scelta.

Francesco Gesti – Torniamo all’opera che abbiamo scelto come logo di questo “Diario londinese”, a quel fotogramma raggelato dello squalo di cinque metri in salotto sul quale era rimasta in sospeso la nostra ultima conversazione… The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living è stato indubbiamente il colpo di scena, l’acme nell’atto conclusivo dell’arte del Novecento; e, al di là della sua concentrazione estetica, è un’opera la cui storia diventa necessaria come la Stele di Rosetta per tradurre i geroglifici del linguaggio estremamente complesso con cui funziona tutto il sistema dell’arte contemporanea. Come già per Warhol, dunque, l’aneddotica, i racconti e le informazioni, le cifre che iniziano a circolare insieme all’opera e anche eventualmente prima della sua stessa nascita, assumono un valore decisamente più alto della coloritura utile ad arricchirne i racconti; è un valore, anzi, di una natura differente, nella misura in cui quegli aneddoti, rivelando le volute di un pensiero creativo, concorrono a formare il valore estetico stesso di quella particolare opera d’arte. Così ci possiamo figurare Charles Saatchi che nel 1991 inizia a tessere la trama di una delle più riuscite strategie pubblicitarie applicate all’arte e volta a raccogliere e promuovere a livello internazionale una schiera di giovani artisti britannici; ce lo si può figurare nell’atto di dare carta bianca a un Hirst solo ventiseienne perché realizzi il lavoro più sconvolgente che gli riesca di immaginare. Ugualmente possiamo immaginare Hirst alla ricerca anzitutto di informazioni, che batte i docks come un personaggio di un racconto di Conan Doyle, chiedendo dove sia possibile recuperare quel certo tipo di bestia, finché viene a sapere che molto probabilmente in Australia… lo immaginiamo mentre consulta i chimici per conoscerne i termini di conservazione… Come già si è detto, allora, bastava trovare lo squalo e la formaldeide, far realizzare la teca in vetro e acciaio… e già qui è possibile osservare una dinamica eclatante: un artista molto giovane e determinato che ha per le mani la sua prima possibilità di fare un’uscita sensazionale, che ha alle spalle un mecenate potente; ma ancora più sorprendente è il fatto di avere avuto un’idea tanto imprevista e inedita, di pensare che fosse realizzabile, e di metterla in atto nel miglior modo possibile.

D. D. – Il risultato è un’immagine di terrore ma anche di maestà della natura impressionante. Raffigura l’immagine più terribile di morte ma rendendo eterno, vivo per sempre, un vincente della natura in carne ed ossa. Ed è un’opera che segna anche un altro paradosso, nel solco già tracciato da Warhol tra “artista” e “produttore”, perché non solo lo squalo non l’ha catturato né imbalsamato lui, la cassa non l’ha materialmente prodotta lui, ne la formaldeide è una sua invenzione…

F. G. – Già, questo è solo l’antefatto. Perché se, come poi è accaduto, dopo alcuni anni lo squalo inizia, in seguito a un errore, a marcire? Se non fosse più possibile tentare di “restaurarlo” e anche i chimici, scuotendo la testa, dicono che lo squalo è irrimediabilmente perso? Basta trovarne un altro… E allora, recuperata la sola cassa a vetri, gettato via lo squalo marcio con la formaldeide, è stato acquistato un nuovo squalo e lo si è immerso in nuova formaldeide, tutto a spese del ricco collezionista, nuovo proprietario dell’opera dal 2004. Il nuovo squalo è naturalmente diverso e, per volontà dell’artista ha anche la bocca spalancata anziché socchiusa; eppure non è una nuova opera: è cambiato quasi tutto, ma è la stessa; originale, nell’intenzione creativa, quanto la prima. È il finale grandioso: l’idea non ha più nemmeno la necessità di legarsi a uno e un solo corpo: quella rimane, mentre questo può diventare accessorio, tanto da essere sostituito.

D. D. – E cosa c’è di più contemporaneo di questo?

F. G. – Hirst è anche quello che ha tenuto impegnato un gruppo di esperti in giro per le cave del mondo alla ricerca dei diamanti più puri che poi, nelle mani di orafi, sono stati incastonati in un teschio di platino che gioca alla morte una beffa nel lusso estremo: For the Love of God ha il primato di essere l’opera d’arte contemporanea con i costi di realizzazione più alti della storia.

D. D. – Bisogna dire che opere come queste hanno naturalmente un forte carattere provocatorio, ma che il loro significato non si limita a questo, lui stesso ha l’ambizione di mettere le persone di fronte alle “questioni fondamentali della propria vita”, di fronte alle quali non si sente in grado di dare risposte “eterne”, ma solo obbligato a farle emergere quali sono, ossia domande sempre aperte, questioni eterne, appunto. E, proseguendo nella stessa intervista di Robert Ayers, alla domanda di quale siano queste questioni eterne, Hirst, citando un’opera di Gauguin, non lascia dubbi: «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? Penso siano queste le grandi questioni dell’arte e molti artisti si pongono queste domande e cercano di dare ad esse una parvenza di risposta, qualche suggerimento per trovarla…» e non mi sembra una dichiarazione da poco, anche perché stare di fronte a queste domande porta Hirst ad amare ancora di più la vita e il suo lavoro: «Ma alla fine della giornata, anche l’arte non può che dire: “Non è grande la vita?!”. Questo è il massimo che si possa ottenere dall’arte».

F. G. – Infine, Hirst è quello che ha deciso di ritirarsi temporaneamente dalle scene perché la sua immagine è ormai inflazionata e compare su qualsiasi genere di pubblicazione; prima di andarsene, però, ha organizzato un’asta campale di tre giorni, completamente autogestita, in cui la vendita delle opere di sua proprietà da lui stesso definite “giovanili” e rispetto alle quali ha annunciato di voler cambiare genere, gli ha garantito il più alto incasso plurimilionario che sia mai stato realizzato; e per una di quelle virate ironiche del destino, tutto questo è accaduto pochi mesi fa, nel giorno esatto del tracollo finanziario delle banche americane… Così si chiude l’anno a Londra: sullo sfondo rimangono quattro mostre che segnano il livello più alto e necessario dell’arte del secondo Novecento, e la scena rimane vuota, come i magazzini delle case d’asta. Intanto, nell’attesa che il Re ritorni, restiamo in ascolto di altre voci da altre stanze; osserviamo il percorso – in confronto più discreto ma altrettanto consolidato – di Bill Viola e Gerhard Richter, di Anselm Kiefer, di Matthew Barney…

D.D. – Come spesso accade le scadenze cronologiche non coincidono con quelle epocali. Un tempo mi facevi notare che la musica degli anni Ottanta non sia finita nel 1989, ma abbia dovuto aspettare di schiantarsi sulle note di Kurt Cobain e dei Nirvana. Mi par di capire che anche per l’arte contemporanea sia così e l’impressione è che il secondo millennio non sia finito con il 1999 ma con il 2008, dopo qualche anno di assestamento, nei quali sono arrivati all’apice certi fenomeni artistici dei quali Hirst è il capofila, e nei quali, certamente stanno ribollendo sotto le ceneri gli artisti che domineranno a scena del nuovo secolo. Magari saranno le nuove vite di nomi già noti – qualcuno sa che fine ha fatto Cattelan? – certo compariranno nuovi nomi… Così come l’economia è raggelata in attesa della grande crisi del 2009, l’arte lavora sottocoperta… Attendiamo anche noi il nuovo anno, insomma, perché l’arte è come la vita, si trasforma ma non muore mai.

Scarica l’articolo in pdf

Leave a Reply