Rinascimento ticinese. La mostra
La mostra sul Rinascimento ticinese che va in scena alla Pinacoteca Züst di Rancate è uno di quegli eventi storici che spiazza qualsiasi commentatore. Occorreranno trent’anni per recepire, e anche sacrosantamente discutere o verificare, tutte le scoperte e proposte di questa mostra… Dopo i dettagli bellissimi e misteriosi pubblicati nell’anteprima della mostra di Rancate (Gdp del 17 luglio scorso) proponiamo una sequenza di immagini dell’allestimento dell’esposizione, in cui le opere s’intravedono. Come con un cannocchiale complicato che non si riesce a maneggiare, o come quando si fatica a mettere a fuoco perché gli occhi sono pieni di lacrime, passiamo dal tanto vicino al tanto lontano. I motivi sono tre: primo perché ci hanno insegnato che le esposizioni serie si dividono in mostre di poesia e mostre di prosa e questa è una mostra di poesia, nella quale gli accostamenti parlano quanto le opere singole; secondo perché le mostre vanno viste e questa dovrebbe essere percorsa da ogni ticinese con l’orgoglio nazionale che sappiamo per certo esista ancora; infine, perché questa pagina è solo l’inizio di una catena di interventi sulla mostra: da qui a Natale, a cadenza settimanale, presenteremo in dettaglio un’opera della mostra che da sola vale la visita e, in una doppia pagina speciale, racconteremo dei 25 itinerari artistici sul territorio che incoronano le sale di Rancate, portando la mostra oltre i suoi confini fisici e temporali. Ecco allora una fotosequenza, o fotoracconto, della mostra: dieci fermo-immagine rubati da un visitatore innamorato che, messi insieme, non ambiscono alla documentazione completa. Si tratta piuttosto di un mazzetto di fotografie destinate ad essere conservate nell’album delle giornate felici, da riaprire a distanza d’anni, per scoprire, girando la foto, alcuni appunti che si dimenticava di aver scritto: 1 Il territorio scandagliato è l’antica diocesi di Como, Valtellina compresa, unito al Ticino attuale, ossia dentro anche le Tre Valli ambrosiane (Leventina, Blenio, Riviera), insieme a Campione e Brissago. Una geografia più semplice a vedersi che ad elencarsi: sui muri della mostra, i murales esplicativi di Mario Mondo li sorveglia il “San Giorgio” di Losone. 2 Sulla scala si respira aria ferrarese e, saliti al primo piano, ancora un po’ di panneggi spezzati; è uno snodo elegantissimo: tanto Carlo Scarpa, complimenti a Claudio Cavadini. 3 Con i dipinti: sculture, pergamene miniate, scudi, un arazzo, un cassone, qualche oreficeria. L’insieme è tanto equilibrato che il dialogo tra loro è sussurrato, anzi innamorato: solo sguardi, niente chiasso. Qui, due bellissime teche per un calice e una placchetta d’argento inciso si affacciano, guardiani silenti, tra un paio di Santi e il protagonista della mostra. 4 La “Pietà” scolpita dai De Donati fa cascar morti dalla bellezza; il gruppo centrale ora naviga espulso dalla sua cornice, posta un passo indietro, come uno sfondo pertinente ma estraneo. A destra un’altra “Pietà”: è di Antonio da Montonate; un po’ troppo bamboleggiante forse. In entrambe, Maria cerca di trattener per sé almeno un braccio del figlio morto. 5 Ancora arti applicate; che scoperta ogni volta: un arazzo, una vetrata; il mondo dell’arte è più unito di ciò che s’immagina: il disegno del cartone per l’arazzo è di Zenale. Sul fondo, la pala di Ravecchia: finalmente ad altezza uomo! 6 Una mostra nella mostra: da tenere a mente per formare qualche generazione di conoscitore. Dipinti a due mani, nelle quali Giovanni Agostino da Lodi viene sostituito, causa dipartita dello stesso, da pittori diversi a seconda del campo da gioco: Marco d’Oggiono a Milano, Bergognone a Pavia, Giovanni Antonio De Lagaia ad Ascona. A confermare la preziosità educante: un “Angelo” e il suo disegno preparatorio, ma anche un’opera tutta di Giovanni Agostino, utile per una lezione sullo stato di conservazione delle tavole del ’500 (in questo caso sorprendente). 7 Si scende. Il mezzanino: ballatoio sull’ultima sala. Si sbircia dall’alto ma, a tenerci sul pezzo, è la sorpresa per un meraviglioso inedito del giovane Vimercati (siamo nel ’600). E giù ancora ad imparare ingranaggi e motori della storia dell’arte, del gusto e della critica. In pochi metri quadri, nell’ordine: crudo e sincero racconto delle frustrazioni che subisce un curatore, gusto del tempo che ignora un capolavoro, denuncia della dispersione del patrimonio artistico, sguardo sulla storiografia e la divulgazione per immagini e incombere del protagonista del Rinascimento lombardo: Bernardino Luini, rimesso a nuovo in cronologia e attribuzioni. 8 Scendiamo ancora. Il salone finale, quello grande. Perché passando i decenni del ’500 le opere crescono di dimensione. Ad accoglierci è un Giampietrino. Possiamo pestare i piedi finché vogliamo, ma il leonardismo c’è stato e bisogna pur dirlo. Entriamo, Luini maestoso: due colossi ci accolgono ma sembrano pronti a franarci addosso. Sul fondo la sorpresa più impressionante della mostra. Ne parleremo. 9 A chiudere, un accostamento che spiega tutto: al giovanile e stramazzante Gaudenzio Ferrari, si affianca un Gaudenzio tardo un po’ laccato: ma se anche la trasparenza del digiuno sembra cedere il passo alla saturazione della scorpacciata, il più zuccheroso Gaudenzio è sempre più vero di ogni principio di maniera. Zoomata su altre due vergini dolenti, svenenti e svenute. Ma sul volto della Vergine del Del Maino affiora un qualcosa che, se piacere non può dirsi, certamente solo dolore non riusciamo a chiamarlo. 10 La mostra è finita. Uscendo, diamo uno sguardo alla pala di Callisto Piazza: la fine di una storia o l’inizio di una nuova? Ci basti la provenienza del dipinto: è lo scomparto centrale del disperso polittico dell’altare maggiore di Santa Maria degli Angeli a Lugano, dietro al tramezzo di Luini: l’ennesima scoperta dei curatori. |