Rinascimento ticinese. 5 Due Luini ritrovati

Chi, come me, è cresciuto davanti alla televisione dei primi anni Ottanta non potrà non riconoscere come costitutivo della propria educazione il telefilm in cui un vedovo giornalista sui ’50 è impegnato a crescere i suoi otto figli diversamente assortiti e tutti indimenticabili. Le pillole di saggezza de La Famiglia Bradford si sprecano e, tra queste, torna alla mente la furbizia del padre e, mentre nasconde i classici della letteratura negli scaffali più alti della libreria di casa, lasciando in bella vista i libri un po’ più sconvenienti o, comunque, inadatti all’età del giovane Nicholas. Lo stratagemma funziona alla perfezione perché chi sta cercando l’oggetto esclusivo di un desiderio raramente prende in considerazione ciò che ha sotto gli occhi da sempre. Con queste due grandi tele di Bernardino Luini è andata grossomodo così: posizionate nel Duomo di Como in bella vista, sono state ignorate dagli esegeti luineschi per circa un secolo, sparendo, di fatto, dagli studi sul pittore. E non è un caso che anche i curatori siano stati messi in guardia sulla loro esistenza da una fotografia ritrovata in tutt’altre circostanze. Non è nota la destinazione esatta di queste due imponenti tele, probabilmente poste a copertura di un altare, forse proprio quello dedicato ai due Santi. Devo ammettere che Luini non è un pittore che mi toglie il sonno, ma questi due giganti che ti attraggono, entrando nell’ultima sala della mostra di Rancate, non si scordano facilmente. Sarà la materia leggera, la dominante grigia e, certo, il cortocircuito con lo Stendardo di Orzinuovi di Vincenzo Foppa… sembra scontato dirlo, ma sulla diversità tra i due San Sebastiano si potrebbe impalcare il romanzo definitivo della storia dell’arte lombarda. Le due tele di Luini sono magnetiche, capaci di una poesia delicata e, accolto dal senso di protezione che infondono, il visitatore potrà perdersi nell’umido lacustre che sembra intridere di sé la materia stessa della tela del San Cristoforo, senza risparmiare l’atmosfera del San Sebastiano che gli sta accanto. Liberi di scegliere tra i due il preferito, qualcuno parteggerà per il tintinnio di dettagli naturalistici che incorniciano un San Sebastiano distratto, più che sollevato, dall’arrivo di un Angelo ritagliato sullo sfondo, quasi fosse una vetrofania natalizia; per lui la delizia saranno le specie floreali ed erbacee, gli eleganti edifici sul fondo o la mamma con il suo bambino tratteggiati con colpi veloci. Per i partigiani del San Cristoforo – e io sono tra questi – tutto sarà più concentrato, più compatto e raccolto. A svettare Luini lascia sia la chioma verde e fruttata del bastone di Cristoforo, perché l’occhio dell’astante è tutto per il centro affettivo della scena, incorniciata dalla bellissima casacca del Santo. Il centro è in quello sguardo tenero di chi conduce il gioco: un Bambino, un Dio che per reggere il mondo si deve reggere ad un uomo [sic!]. Ciò che mi fa preferire questa scena è che a prevalere è la storia raccontata, è la vicenda reale del Santo, ma soprattutto è il momento esatto in cui Cristo-foro (portatore di Cristo) si accorge che quello che sta sulle sue spalle è Gesù stesso e che è Lui il senso di quel peso insostenibile che quasi lo fa annegare. In quella ciocca stretta, in quello sguardo incredulo, ma anche mansueto e pacificato di Cristoforo, Luini ci restituisce un’immagine di verità, la verità esemplare di un incontro misterioso e reale.

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