Rinascimento ticinese. 7 Le donne di Gaudenzio

A parte la timida eccezione di un bambino stretto alla veste della madre sul fondo, non ci sono uomini in questo dipinto, l’azione è tutta affidata ad un accolita di donne, come se la faccende importanti della vita, almeno nel suo sorgere, tenessero l’uomo fuori dalla porta. È così che mi è venuto in mente il grande regista spagnolo Pedro Almodóvar. Nei suoi film gli uomini sono quasi sempre svuotati della loro virilità, spesso incapaci di decisioni, e ridotti a manichini in balia della femminilità propria o altrui; anche lì la scena è solo delle donne. La ruvidezza di questo cortocircuito mentale non mi abbandona da mesi. Anche perché, lo ammetto, non riesco a non amare i film di Almodóvar. Ciò che mi obbliga a perdonargli tutto è la sua capacità di attaccarsi all’improvviso al cuore e stritolartelo con una forza che pensavi potesse avere solo di quell’amore mancato o deluso che ti ha atterrito un giorno della vita. L’altro motivo del mio amore è che sono semplicemente stregato dalla sua capacità di dipingere con le immagini, dalla sua abilità unica di cavar fuori pura liricità da ogni dettaglio della vita, da ogni atto umano. In un film di Almodóvar il gesto di una donna che taglia un pomodoro diventa un crogiolo di bellezza, passione, decisività che non ha nulla, ma proprio nulla da invidiare all’affondo di spada di un samurai, carico di una tradizione millenaria. Tutto diventa epocale senza essere prosopopeico, o meglio essendolo in senso proprio. E ho il sospetto che anche quella stretta al cuore non sia fine a sé stessa, ma il mezzo per metterti davanti, no, per farti sbattere il muso sulla grandezza della vita.

Questo dipinto sembra l’immagine più lontana possibile dal mondo del regista spagnolo, eppure come negare che arriva con la stessa irruenza al cuore, riuscendo ad esprimere la straordinaria poesia della vita? È la poesia a pervadere ogni oggetto e ogni gesto quotidiano che queste donne compiono a corollario di una Sant’Anna che si rifocilla dopo il parto.

La dolcezza di Gaudenzio Ferrari che l’ha dipinto, l’amore di chi l’ha riscoperto, fatto restaurare ed esposto, ci restituiscono un’immagine struggente che chiama in causa lo stesso cuore straziato a cui si rivolge il regista. Certo la suggestione proposta finisce qui e si ritira di buon ordine. Gaudenzio ha una “dotazione” completamente diversa e a quel cuore arriva per dare altre risposte, per riempire dall’interno quell’intuizione di grandezza. Irrompe, certo, ma per darti una carezza indimenticabile, per rassicurarti che ogni sforzo della vita non andrà perso: essere stesi a letto indisposti, servire un malato, occuparsi della biancheria, lavare i piatti, ripulire un bimbo, asciugare, o forse solo scaldare al camino, i panni di stoffa che accoglieranno quel bambino… Per assicurarti insomma che tutto ha un valore assoluto, grandioso. Sono gesti che non sono simboli ma campionario completo di sguardi, tutti diversissimi tra loro e tutti espressione della grandezza di una madre. Perfino il mondo animale e quello inanimato sembrano partecipare a questa tuttità di senso, a questa carezza sulla vita, tanto che anche un impertinente cagnolino rampante e un ingombrante contenitore trovano posto in primissimo piano.

Il dipinto ci è arrivato in uno stato conservativo molto precario: svuotato delle sue velature, piallato dal tempo e dall’incuria, è quasi una sinopia del quadro che doveva essere. Ma proprio per questo, ci restituisce intatta la grandezza del disegno di Gaudenzio, qui apprezzabile, riga dopo riga, in tutta la sua forza e immediatezza. Andando vicinissimo al dipinto il visitatore non vorrà più staccarsene, tanto potrà perdersi tra gli infiniti dettagli che lo arricchiscono e gli interrogativi che pone. Anche i più esperti non si troveranno solo di fronte ai dubbi del sentimento; la mente comincerà a ragionare su un Gaudenzio alle prese con una tela e non con le consuete tavole, noterà, grazie ai curatori, che i due lavabi posti in prospettiva sono direttamente tratti, fin nella posizione e nella loro funzione spaziale, dall’Adorazione dei Magi di Bramantino alla National Gallery di Londra. E gli verrà la curiosità di ripassare, notando la scelta di disporre la scena su due livelli prospettici ma anche fisici che chiama a sé il gigantismo delle figure in primo piano, cosa avrebbe fatto la maniera di questa impaginazione, negli ottantant’anni che separano questo dipinto da uno dei quadroni di Cerano per il Duomo di Milano (San Carlo distribuisce ai poveri i propri beni). Quest’ennesima ri-scoperta dei curatori è in mostra ad aspettarci: in questa catena di premure c’è spazio per tutti, perché al centro di quell’abbraccio che ti chiede di lasciarti abbracciare, di lasciargli raccogliere e custodire tutta la grandezza dell’agire umano, ecco, al centro esatto della scena, un Uomo c’è ed è l’unico senso di tutto quel fare. Manca poco: tra una settimana esatta la delicata prefigurazione di Cristo, qui resa attraverso uno dei suoi simboli, l’uovo, lascerà il posto alla fisicità di un Uomo fatto della stessa carne di tutti quegli abbracci che, da spezzati, chiedono di essere ricomposti.

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