Edouard Manet: l’uomo che liberò la pittura

Ci sono opere che conosciamo, magari senza rendercene conto, fin da un tempo imprecisato. E non è detto sia un bene. Ci sono immagini di quadri che abbiamo visto centinaia di volte, tanto che alla loro ricomparsa in un catalogo, su una rivista, in un poster o perfino in una pubblicità, il nostro occhio passa ormai distratto su di esse.  Spesso l’assuefazione è tale che, qualora ci sia data l’occasione di vedere il dipinto dal vero, non è detto che l’impatto con l’originale faccia saltare la cataratta dell’abitudine, stupendoci e coinvolgendoci come il capolavoro, in sé, avrebbe meritato fin dall’inizio. Andare a Parigi ed entrare al Museo d’Orsay per vedere una grande antologica di Éduard Manet, paradossalmente, è un’operazione rischiosa: usciranno quei quadri dal catalogo delle immagini un po’ polverose, stampate nei volumi che la mamma, fin da bambini, ci ha sapientemente fatto circolare per casa? Emergeranno nella loro, oggettiva, grandezza, tanto che si possa parlare di capolavori, non solo perchè obbligati dalla storia, ma perchè affascinati da un’esperienza diretta? È la prova del nove, anche perché, si sa, quando i francesi fanno una mostra su uno dei loro paladini, in un museo che, già di per sé, possiede decine di straordinarie opere dell’artista, la grandeur è assicurata.

Manet, bisogna dirlo, stravince la sfida. Fin dalle prime sale, il cuore si apre di colpo e i polmoni cominciano a respirare un’aria di cui non ricordavano il sapore. Non è una mostra, è il trionfo della pittura in quanto tale. Dipinto dopo dipinto, in una serie realmente impressionante di opere epocali, il visitatore è chiamato a godersi lo spettacolo dell’arte, frutto della straordinaria capacità di Manet di usare del mezzo pittorico tutte le potenzialità, di premere fino in fondo con libertà assoluta e portarci in viaggio tra le pieghe della realtà quotidiana, delle sue luci, dei suoi tessuti, delle sue ombre, delle sue acque… Sempre e comunque ammaliati dalla potenza di chi ha il passo sicuro e determinato, di chi, proprio perchè conosce alla perfezione la strada maestra, è libero di trascinarci sui sentieri spericolati della rappresentazione artistica. È una mostra che dà un’iniezione di fiducia rispetto alla capacità della pittura in quanto tale – e dell’arte in genere – di dare un apporto fondamentale alla nostra esistenza.

Non si tratta solo di un fattore soggettivo ed emozionale, ma storico. La mostra non fa altro che restituirci la carica esplosiva di Manet rimasta intatta in questi due secoli e mezzo ma che, fin dall’apparire dei suoi dipinti nei Salon degli anni Sessanta dell’Ottocento, ebbe un effetto detonante sulla storia della pittura. Si trattò già allora di benzina sul fuoco di una rivoluzione che esplose in una ventina d’anni, ma che ha prodromi e sviluppi almeno in tutta la seconda metà dell’Ottocento. Anche solo per tracciarla a sommi capi, sono gli anni in cui Parigi è al centro della pittura Occidentale e in cui il saldo potere dell’Accademia comincia a scricchiolare sotto le pressioni delle giovani energie che avrebbero rivoluzionato la pittura. Sono gli anni in cui il Salon continua a suonare la nota della pittura di storia, dei soggetti e delle tecniche imbalsamate che si trascinano dal Settecento, gli anni in cui Courbet (1819-1877) dà la prima dirompente spallata al sistema con la sua doppia rivoluzione di soggetti e materia. Esattamente allo scoccare della metà del secolo (1850) il suo Un enterrement à Ornansfa irrompere il popolo comune sulla scena delle grandi tele di storia, i soggetti più intimi della vita si fanno largo sui cavalletti: il 1855 è l’anno del suo Pavillon du Réalisme e, nel 1866, la parabola si compie con la scandalosa Origine du monde. Il dado è tratto, ma la pittura ufficiale dei Salon sembra non volersene accorgere: gli anni Sessanta e Settanta, nei quali si svolge pressoché tutta la produzione artistica di Manet, sono quelli dei Salon des Refusés, e di Impression, soleil levant (1872) di Monet che, alla mostra di due anni dopo, darà il nome agli Impressionisti.

Ma in questo panorama unico qual è il ruolo del nostro Manet, classe 1832? Degas era del ’34, Monet del ’40, Renoir del ’41 e se Manet è considerato il padre, e non il fondatore o coprotagonista, degli Impressionisti non è solo un problema cronologico. Manet si ostinò tutta la vita a cercare l’approvazione ufficiale dei Salon, non retrocedendo di un millimetro sulla propria pittura, capace spesso di far scandalo, ma riproponendosi ogni anno alla giuria e rifiutando di partecipare alle mostre, dichiaratamente alternative, degli Impressionisti. Ciò non di meno, la rivoluzione che Manet volle portare dentro l’ufficialità tolse il tappo ai pittori di Nadar, spingendoli alla loro esplosione creativa, almeno quanto andava facendo incoraggiandoli e sostenendoli anche economicamente.

La parabola di Manet è dispiegata in mostra a darci un esempio di amore incondizionato alla vita e alla pittura, dimostrandoci come si possa fare la rivoluzione dall’interno della tradizione. E questo valse non solo per l’Accademia ma, ciò che più conta, all’interno del singolo quadro: nella fase spagnoleggiante dei primi anni Sessanta, l’artista rimastica la pittura di Velázquez, restituendocene l’incrollabile forza e modernità, fatta di un uso tutto nuovo del colore presto aborrito dagli Impressionisti, il nero, e di una sfrontatezza quasi animale del carattere umano (qui a sinistra). Tra le entusiasmanti opere che affiancano le tele del d’Orsay, quali la celebre Déjeuner sur l’herbe esposta al Salon des Refuses nel 1863 o l’Olympia approdata al Salon due anni dopo, indimenticabile rimarrà l’infilata di ritratti di donna, nei quali è possibile cogliere tutta la rivoluzione interna alla pittura portata avanti da Manet. Anche solo in un rapido confronto tra l’immagine qui al centro e quella posta a chiusura, si rimane ancora una volta atterriti di fronte alla pennellata che (al centro), puntuale ma irrispettosa, sembra voler scuoiare la pelle della modella, rompendone i contorni per farne emergere tutta la potenza espressiva, in modo forse più unico e rivoluzionario di come si libererà nelle opere degli ultimi anni (qui sotto), più vicine, anche se non assimilabili, agli Impressionisti, ove la danza delle pennellate ci porta fino alla soglia del figurativo, librando le capacità espressive della nostra amata pittura.

Scarica l’articolo in pdf


Leave a Reply