Una mostra diseducativa: Caravaggio a Milano

Luci e ombre di Caravaggio risplendono sull’Europa

Perché non si può non vedere la mostra “di Caravaggio” a Milano. Intanto le mostre sono due: Caravaggio e l’Europa. Il movimento caravaggesco internazionale da Caravaggio a Mattia Preti e Il genio degli anonimi. Maestri caravaggeschi a Roma e a Napoli.

Sulla seconda, curata da Gianni Papi al pian terreno in quattro stanze, non vale la pena di soffermarsi troppo; si tratta di una piccola esposizione per addetti ai lavori: alcuni tentativi di costituire nuovi anonimi maestri caravaggeschi, intorno ad opere più o meno belle, associandovi altri quadri che il curatore, ma solo lui, crede dello stesso autore. Apprezziamo il tentativo ma forse ogni tanto sarebbe meglio che gli autori di dipinti mediocri rimanessero ignoti, nascosti all’ombra delle ancora utili diciture “Copia da” e “Bottega di”.

Ed è un peccato che in questo tentativo, un quadro meraviglioso nella sua lunare malinconia come il Suonatore di Liuto di Berlino sia finito qui con improbabili compagni anziché al piano nobile, dove è disposta la mostra principale; lì, con la sua sola presenza, avrebbe aperto l’interrogativo sul suo possibile autore e permesso confronti importanti con altri dipinti.

La mostra principale invece si apre con le opere del protagonista: non considerando neppure la copia della Cattura di Cristo di Dublino conservata a Odessa e qui attribuita al Merisi, i Caravaggio in mostra sono sei, disposti in due sale: quadri di grandissimo livello, alcuni dei più importanti del pittore, tra cui la Madonna dei Pellegrini dalla chiesa di Sant’Agostino a Roma, copertina della versione definitiva della mostra, scesa dall’altare in cui è collocata ed eccezionalmente visibile ad una distanza ravvicinata; accanto si mostra la Flagellazione del Kunsthistorisch di Vienna e, nella seconda sala, la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei Pastori, entrambe al Museo Regionale di Messina. Come il lettore potrà giudicare dalle due immagini qui proposte, sono quadri che da soli rendono obbligata una visita alla mostra.

Seguono ben sette sezioni di pittori Caravaggeschi in cui i dipinti sono raggruppati in un criterio misto di scuole e arco cronologico. Impossibile e poco utile, qui, una disanima delle singole attribuzioni dei dipinti, delle opere che mancano e avrebbero dovuto esserci, di quelle che ci sono e sarebbe stato meglio stessero a casa loro. Ciò che conta, ed è il motivo per cui vale la pena vedere questa mostra, non è la sua inattaccabilità scientifica ma la presenza, nelle singole sezioni, di alcuni dipinti che non sfigurano affatto di fianco al genio di Caravaggio e quindi essi stessi più che sufficienti a giustificare una visita.

La prima sezione, per la quale si sente ancor più che nelle altre sale la mancanza dell’indicazione delle date di esecuzione dei dipinti nei cartellini, s’intitola I primi seguaci e raggruppa alcuni capolavori dei pittori che hanno conosciuto l’opera di Caravaggio quando lui era ancora in vita (ante 1610) rimanendone folgorati. Indimenticabile è il genio di Orazio Gentileschi che, come già emerso nella mostra romana del 2001- 2002, si dimostra superiore alla pur brava e arcinota figlia Artemisia; di lui, in mostra, è presente anche il David che uccide Golia: un’impressionante rappresentazione della potenza di Dio riposta nella fragile mano umana. Da annotarsi nella mente sono anche la Sacra Famiglia di Borgianni, un’intimità grandiosa che diviene straziante nel dettaglio di Gesù che trattiene a forza una colomba, simbolo del suo destino di passione e il San Lorenzo del Cecco del Caravaggio, uno dei modelli del Merisi, anch’egli pittore, che qui possiamo apprezzare alle prese con un’opera dalla dolcezza crepuscolare e preziosa allo stesso tempo. La sala più interessante della mostra è senz’altro La giovinezza di Ribera, in cui si espongono per la prima volta i dipinti un tempo attribuiti al cosiddetto Maestro del Giudizio di Salomone, identificato dallo stesso Gianni Papi come il giovane Jusepe de Ribera appena giunto a Roma. Se verrà confermata dalla critica, si tratta della più importante scoperta caravaggesca degli ultimi anni, dalla cui giustificata euforia deriva probabilmente l’improprio tentativo del pian terreno.

Non mancano i rappresentanti dei Caravaggeschi Napoletani, Francesi e Olandesi, per i quali una menzione andrà senz’altro alla bellissima sala dei Francesi, in particolare alla rappresentazione allegorica dei Cinque Sensi di Valentin de Boulogne e al Maestro dell’Annuncio ai Pastori, qui difeso da una tela dalla potenza zingara, in cui il dettaglio del vello delle pecore sembra uscire dalla tela con un impeto dalla verità puzzolente e oltraggiosa. Mattia Preti non è rappresentato da opere indimenticabili e l’ultimo sussulto della mostra ce lo regala, guarda caso, un ticinese: Giovanni Serodine. A lui è dedicata un’intera parete, in cui rivedere il Ritratto del padre, L’Elemosina di San Lorenzo e il fuori classe della mostra: quel San Pietro della Pinacoteca Züst che sembra aver la forza di riassumere e far esplodere in sé, tutte le tensioni e gli umori del caravaggismo europeo.

Collezioni faraoniche e business, ovvero se la mostra non educa più

 

Le recenti stagioni espositive di Palazzo Reale a Milano, ormai appartenenti al passato e ideate da Flavio Caroli, hanno visto nascere grandi mostre dal debole valore scientifico per vedere le quali, molti di noi, a ragione, abbiamo fatto la fila: L’anima e il volto (1998-1999), Il Cinquecento Lombardo (2000-2001) e il canto del cigno del suo curatore, la non meno faraonica ma decisamente meno visitata: Il Gran Teatro del Mondo (2003-2004). Mostre paradigmatiche del nostro tempo, caratterizzate da centinaia di dipinti, disposti in un’accozzaglia acritica che affianca capolavori assoluti della storia dell’arte a croste o copie esposte con attribuzioni impossibili per compiacere quel mercante o quel collezionista. Mostre che manifestano un meccanismo dominante e incancrenito in cui ciò che distingue una bella mostra da una mediocre non è la scientificità, la capacità che ha di illustrare un’idea critica, la possibilità di poter verificare ipotesi e formularne di nuove, quadri alla mano. Non più la mostra come laboratorio di idee, indicatrice di un gusto e quindi grande possibilità per far capire, anche ad un grande pubblico di non addetti ai lavori, spaccati entusiasmanti della nostra storia artistica. La bellezza o meno di una mostra è ormai determinata da un unico criterio: quanti visitatori ha fatto. Perché tanti visitatori corrispondono a tanti biglietti, tanti cataloghi venduti, tanta visibilità e quindi tanti sponsor, pubblici o privati, disposti a pagare. Insomma tanti soldi. Ma soldi per cosa? Per ripagare la stessa faraonica mostra, in un circolo vizioso che ha qualche analogia con il più noto mondo del calcio. Il pubblico va a vedere mostre se ci sono tantissimi quadri e grandi nomi (sempre gli stessi), ma tanti quadri e grandi nomi implicano enormi costi, che richiedono folle oceaniche. Venuta meno ogni ipotesi educativa per il pubblico, lo si tratta come un deficiente finché deficiente lo diviene davvero, nel senso che gli mancano totalmente gli strumenti per giudicare e, in mancanza di nomi già noti e di un numero di quadri a tre cifre, non va a vederla. Ecco perché il nome di Caravaggio, capace di far drizzare le antenne ad un vastissimo pubblico, compare come il prezzemolo in decine di mostre degli ultimi anni, ed ecco perché se non puoi dichiarare almeno 150 quadri non verrai creduta una grande mostra. Non sono certo considerazioni nuove per gli addetti ai lavori, ma nessuno sembra aver la forza e la volontà di cambiare le cose e la “mostra di Caravaggio” si è adeguata.

Scarica l’articolo in PDF

Leave a Reply