Hans Holbein a Basilea

A prima vista tutto semplice: di splendore in splendore. Siamo all’inizio del Cinquecento, un giovane pittore tedesco nato ad Augusta, Hans Holbein, figlio dell’omonimo pittore e per questo detto “il Giovane”, arriva in cerca di fortuna a Basilea nel 1515. Ha circa 18 anni ma la città, allora centro di cultura vivissimo, non ci mette molto a capire di aver tra le mani un genio e, in pochi anni, diventa il pittore più richiesto, fioccano le commissioni, il celebre Erasmo da Rotterdam si fa fare ben tre ritratti, Basilea lo porta in palmo di mano… Ma le opere di Holbein sono veramente eccezionali e destinate a ben altra fortuna: la scintilla scoppia quando Erasmo lo consiglia niente meno che a Tommaso Moro, entusiasta del suo ritratto di famiglia. Da lì al famigerato Enrico VIII il passo è breve, tanto che, nel 1532, Holbein lascia Basilea per diventare il pittore ufficiale della corte inglese e rimanere al seguito del re fino alla morte, sopraggiunta per un’epidemia nel 1543. Basilea corona un sogno inseguito da tempo e presenta (fino al 2 luglio) la produzione del pittore che precede il trasferimento a Londra, città che a sua volta raccoglierà il testimone a settembre, completando con una seconda mostra il percorso dell’artista. Si apprezzano a Basilea i penetranti ritratti che sanno coniugare imitazione puntuale, resa psicologica e impianto compositivo, in un equilibrio e immediatezza senza pari. Non mancano le splendide pale d’altare dall’altrettanta eccezionale qualità, libertà d’invenzione e sapienza cromatica, resa con impagina zioni spericolate, notturni incantati e aggiornata analisi fisionomica. Una mostra di quelle da godersi insomma, di bellezza in bellezza, di quadro in quadro, di disegno in disegno e di stampa in stampa, apprezzando anche quest’ultima e non secondaria attività dell’artista, che ben si colloca nella fulgida tradizione editoriale della città. Ma Holbein non è Raffaello. In gioco c’è un’altra grandezza che, in particolar modo nei disegni, emerge prepotente al di là delle necessità di studio compositivo, nel quale sperimentare scorci architettonici sempre nuovi, fino a tenderne la visione al limite della rottura. Il mezzo è un segno sinuoso, avvolgente ed estraneo a durezze, che scolpisce le figure traendole dal fondo a suon di piccolissime note di biacca, l’esito è una straordinaria immedesimazione con il soggetto raffigurato, in cui il pittore non viene mai soverchiato dalla propria capacità. In questo senso, quello che rimarrà un’immagine assolutamente indimenticabile è il bellissimo disegno qui riprodotto, in cui Maria è rappresentata con libertà e naturalezza per diventare quello che era: una bellissima ragazzina alle prese con il suo marmocchio. Il realismo impietoso usato per il Cristo morto si scopre allora frutto non di un morboso attaccamento al dettaglio naturalistico, ma conseguenza di un accorato amore alla pittura e ai fatti narrati, dei quali si vuol restituire ogni piega e piaga. I disegni ci offrono insomma un dietro le quinte che ci fa guardare più lontano dei bellissimi ma trattenuti ritratti ufficiali, avvertendoci che Holbein non è solo il bravissimo, ma anche l’umanissimo. Così, quasi al termine della mostra, quando inventiva e bravura del maestro sembrano averci saturato ed estasiato, ci si sente svuotare all’improvviso di tutto, come un ragazzino che, riempite le tasche di noci fino a scoppiare, sia costretto dal sopraggiunto padrone dell’albero a svuotarle tutte per terra. Tra i magniloquenti ritratti, tronfi di posizione e postura (Lady Guildford è arrivata qui in rappresentanza del club londinese) si erge infatti, isolato per pudicizia, lo struggente ritratto che il pittore dedica alla sua famiglia. Finalmente a casa, ecco scoppiare l’umanità presente ma sottaciuta nelle sue opere più celebri. Il ritorno è innanzitutto cromatico e dall’azzurro dei fondi si è scesi ben più vicini alla terra e ai suoi bruni: va in scena la dignità di una bimba dal naso arrossato che “è tutta sua madre”, di un bambino vispo che “chissà cosa farà da grande” e, perché no, della cara e, Dio solo sa quanto paziente, moglie, carica per sempre di un ignoto peso di malinconia.

Il Cristo nel sepolcro

Il Cristo nel sepolcro di Holbein (1521), conservato alla Kunstmuseum di Basilea, è certo il suo quadro più celebre ed è noto anche per il profondo turbamento che suscitò a un visitatore d’eccezione, Fë- dor Dostoevskij, che, in seguito alla visione del dipinto nel 1867, subì un acuirsi della malattia, tanto da dover riposare diversi giorni a Ginevra. Ciò che turbò lo scrittore russo fu la rappresentazione così cruda e realistica della morte di Cristo, raffigurato a grandezza naturale, livido quasi sul punto di decomporsi. Una morte così reale che certo interroga la libertà del credente, rafforzandone la fede sull’assoluta eccezionalità della resurrezione o, al contrario, minandolo nella sua certezza, insinuando il dubbio che da una siffatta morte non si possa risorgere. Come scrisse Dostoevskij ne L’Idiota: «Gli uomini che circondavano il morto, ma dei quali nessuno appariva nel quadro, dovettero provare un’angoscia e una costernazione terribile in quella sera che aveva frantumato di colpo tutte le loro speranze e quasi la loro fede…» e anche oggi «…più di uno guardando questo quadro può perdere la fede». Anche solo la possibilità che Cristo non fosse risorto tormentava lo scrittore perché, come esclama ne I demoni, «Se le leggi della natura non hanno risparmiato nemmeno [Cristo] vuol dire che tutto il pianeta è menzogna e si regge sulla menzogna e su una stolta irrisione. Vuol dire che le stesse leggi del pianeta sono menzogna e una farsa del diavolo. Perché, dunque, vivere, rispondi se sei un uomo?».

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