L’ultimo Tiziano

È andata così. Era il 1576, a Venezia infuriava la peste, le nebbie erano già indimenticabili sulla laguna, ma a dover fare i conti con la morte, non erano ancora tedeschi di mezza età, inclini alle folgorazioni. La scena era tutta occupata da ben altro epilogo, quello del più grande pittore del suo secolo: Tiziano. Non si trattò di morte prematura, di anni il Vecellio ne aveva quasi novanta, semmai i contorni erano quelli di una partecipazione necessaria ad un abbandono collettivo alla vita. L’ultima pennellata si era spenta sulla grande tela destinata alla sua sepoltura in Santa Maria dei Frari. Nacque dalla sua morte la più grande, dolente, straziante Deposizione che la storia dell’arte abbia mai conosciuto. Nel suo quadro-testamento, conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, non c’è nessuna traccia di autocelebrazione, nessun trionfo, nessuna raffigurazione di protettori delle Arti, dee della Pittura, nessun alloro, il titolo nobiliare… niente di niente. Strazio e dolore. Si tratta di un epilogo decisamente sorprendente se si pensa alla sua vita e fama. Si trattava dello stesso Tiziano corteggiato dal papa Farnese, Paolo III, che lo voleva a tutti i costi a Roma, era il Tiziano strapagato dagli Asburgo, il ritrattista ufficiale di Carlo V e del figlio Filippo II, il Tiziano, anche solo per fermarci nella stessa chiesa dei Frari, della lucente Pala Pesaro ma, soprattutto, dell’Assunta per antonomasia. Cosa era successo? È vero che, poco più di dieci anni prima (1564), Michelangelo era morto sulla Pietà Rondadini… Ma quella era un’altra storia. Michelangelo era il genio del travaglio, della disperazione, di chi si sente sempre dalla parte sbagliata, di chi non ha mai creduto fino in fondo alla gloria. Tiziano era, al contrario, il ritrattista d’Europa, un artista ben contento dell’opera di promozione messa in campo dall’Aretino, non lo scontroso, insofferente di fronte all’apologia del Vasari nelle Vite. Se non ci fossero arrivati i quadri presentati a questa mostra veneziana, si sarebbe potuto vedere nella Deposizione di Tiziano uno sconcertante biglietto last-minute per il Paradiso. In realtà quello che stava maturando nell’opera del pittore, ormai da vent’anni, era un ripensamento complessivo sulla propria vita, sul senso della propria gloria, sulla finitezza della propria fortuna e quindi, sul senso stesso della pittura. A parlarci di questi ripensamenti e riflessioni sono elementi di narrazione esplicita, come il ritrarsi nel ruolo sconsolato di Re Mida nel pezzo più sconvolgente della mostra, il Supplizio di Marsia qui riprodotto, dimostrando di sentirsi anch’egli vittima della propria capacità di trasformare tutto in oro… Ma lo spettatore potrà godere di ben altra possibilità di conoscenza, lasciandosi andare all’osservazione dei quadri che, uno dopo l’altro, restituiranno, tra le pieghe della materia, i germi di un ripensamento destinati a corrodere la stessa superficie pittorica dall’interno. È come se le celebri cromie di Tiziano, contagiate dal morbo del desiderio di un senso, si fossero assottigliate fino al sparire, per lasciare emergere le dense pennellate che le sostenevano. L’effetto è, guarda caso, quello del non finito, e l’esito un protagonismo della materia, lasciata allo stato di grumo, in una modernità sconvolgente che anticipa la pittura dei secoli a venire, come ben dimostrano anche solo i tre esempi proposti in pagina. In questa fase della vita che per molti artisti cede il passo alla stanchezza e alla bottega, Tiziano dimostra di dare il meglio di sé, facendosi maestro non solo per l’imminente manierismo ma per la pittura dei secoli a venire: da Rembrandt all’Informale.

“Supplizio di Marsia”, Arcivescovado di Olomouc (Repubblica Ceca).

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