Rudolf Stingel alla Beyeler

La mostra dedicata dalla Fondazione Beyeler di Basilea a Rudolf Stingel, artista altoatesino residente a New York dal 1987, è un’antologica che permette (fino al 6 ottobre) di ripercorrerne la carriera, attraverso rimandi interni ed esterni all’opera, che rendono l’esposizione curata da Udo Kittelmann, direttore della Neue Nationalgalerie di Berlino, emblematica della complessità e ricchezza della stessa arte contemporanea.

La tela di oltre quattro metri di base che apre la mostra è un quadro iperrealista del 2019, un olio su tela che riproduce l’immagine di una mano che stringe un aerografo, una fotografia usata in un lavoro concettuale dell’artista di esattamente trent’anni prima, quando, in una mostra alla Galleria Massimo De Carlo di Milano, espose una serie di opere astratte, distribuendo un piccolo manuale illustrato in sei lingue, in cui spiegava come farsi “il proprio Stingel”, passaggio dopo passaggio, dalla miscela dei materiali, all’uso del tulle per filtrare il getto di colore. Il manuale dell’89 poneva l’accento sul cardine stesso del concettuale, e dell’arte contemporanea, in cui l’opera non sta più nel manufatto, ma nell’idea dell’autore, tanto che l’artista non ha nulla da temere dalla copia esatta del suo lavoro, perché solo la sua firma lo rende autentico, Duchamp e Merda d’artista docent. Una teoria che si compie al centro della mostra, dove è esposto un ciclo di opere del 2019, realizzate esattamente con la tecnica descritta nel manuale: grandi tele astratte, con una dominante rosata, che tradiscono la nostalgia per le montagne innevate dell’artista altoatesino, in questi anni spesso al lavoro anche nel suo studio di Merano, dove è nato nel 1956.

Piantati i punti cardinali dell’arte figurativa, astratta e concettuale che orientano l’opera di Stingel, il viaggio andrà condotto in mostra al netto delle rade dichiarazioni dell’artista. Ruvido montanaro dal carattere piuttosto schivo, gli amici ne attestano le capacità di amabile e disponibile conversatore, a patto che non si ceda alla tentazione di interrogarlo su un aspetto qualsiasi del suo lavoro. Rilascia rarissime interviste e, come molti suoi colleghi, sostiene che con le proprie opere non voglia dir nulla di più di quello che si vede…

A chi non vorrà arrestarsi alla bellezza estetica e virtuosistica della sua opera, inebriandosi nella varietà di colori, materiali, suggestioni e iterazioni possibili con essa, consigliamo quindi di allacciare la cintura delle proprie conoscenze e partire per un viaggio di rimandi, mettendo in conto di sentirsi sempre lontani da una comprensione esaustiva. Naturalmente sta qui la grandezza dell’artista, che non sarebbe altrimenti uno dei protagonisti della scena internazionale, probabilmente l’italiano vivente più quotato al mondo.

Il tappeto arancione, che copre integralmente l’enorme parete della seconda sala, evoca quello che copriva il pavimento della Daniel Newburg Gallery di New York alla sua mostra del 1991, raccontando di una prima declinazione su mezzi altri della propria pittura, interpretata da un tessuto monocromo su cui il visitatore è chiamato a “disegnare”, sfruttando il contropelo come su un raso, imprimendo un tratto visibile ma effimero, destinato a sparire con il passaggio dei visitatori che seguiranno, sotto la pressione digitale dell’immaginario del prossimo. Un’opera dalla raffigurazione mutevole all’infinito, che realizza il sogno di essere sempre contemporanea, preservando la sua attitudine cromatica e immersiva. Nella parete di fronte, un’altra opera aniconica, sui toni dell’azzurro pastello, è realizzata scavando semplici pannelli di polistirolo, a esemplificare, non solo la centralità della sua ricerca sui materiali, ma l’importanza del segno che accomuna gran parte della ricerca di Stingel, interessato a declinare il rapporto tra traccia e supporto, in una ricercata ambivalenza e ambiguità.

I suoi interventi ambientali con le lastre di Celotex, un isolante in pannelli dalla superficie morbida, argentata e specchiante, montati a foderare integralmente le pareti di una stanza in diverse mostre degli ultimi anni, si prestano ad essere sfregiati e incisi dai visitatori, che vi scrivono e disegnano a proprio piacimento. Un’opera che non nasce, come spesso si crede, interattiva, ma che lo è diventata immediatamente e irreversibilmente alla sua prima comparsa al Mart di Rovereto nel 2001, quando dopo i primi “sfregi” da parte dei visitatori, l’artista ha colto la potenzialità dell’intervento del pubblico che, a fine mostra, ha restituito un’opera sorprendente di stratificazione sociale e immaginifica, a documentazione della complessità e quotidianità dell’esistenza. Stingel è interessato alla libertà del segno prodotto dall’imprevedibilità della vita vissuta, come mostra realizzando ritratti e autoritratti iperrealisti, che riproducono fedelmente fotografie lasciate volutamente esposte all’incuria, alle ditate e alla polvere o trattenendo i dipinti in studio dopo la loro conclusione, perché si macchino del colore dei dipinti successivi e si feriscano con colpi casuali o pedate.

Naturalmente la libertà effimera del tessuto dalla superficie cangiante o quella dei pannelli sfregiati dai visitatori non si traduce in anarchia e il controllo della sua opera rimane sempre in mano all’artista altoatesino. Grazie alla fluttuazione dei materiali e all’inesausta ricerca sulle potenzialità degli stessi, Stingel ha deciso di trasporre, con un complesso processo, gli effimeri pannelli di isolanti incisi in permanenti fusioni in metallo, come l’esemplare di dodici metri qui esposto. In mostra i pannelli di Celotex sono allestiti sulle pareti dell’ultima stanza, occupata da un grande tavolo-altare su cui sono esposte copie dello straordinario libro d’artista disegnato da Christoph Radl, sfrontatamente e programmaticamente senza una riga di testo, ma con 475 illustrazioni a raccontarci l’intera produzione di Stingel. A sottolineare l’aspetto interattivo e ludico dell’opera, le lastre di Celotex sono allestite anche in alcune pareti del ristorante del museo, dove, chissà se per mano dell’artista, un omaggio alla Betty di Gerhard Richter faceva capolino dietro un tavolo, già nelle primissime ore di anteprima della mostra. Per Stingel, Richter è comunque un sicuro punto di riferimento per le sue sperimentazioni astratte sul colore, per i suoi meccanismi con lastre di vetro, oltre che, naturalmente, per le sue opere iperrealiste. Un genere, quest’ultimo, ben rappresentato in mostra dalla volpe tratta dalla foto di un almanacco trovato in un mercatino delle pulci, dalla straordinaria montagna in bianco e nero e da un trittico di fiori, da immaginare iperrealista solo perché evidentemente non tratto dal vero, ma, probabilmente, dal tessuto di un divano demodé, in un processo di realtà della finzione che ci fa immediatamente risalire sulla giostra dei significati. Infine, lo struggente ed enorme autoritratto del 2006, desunto da una fotografia dell’amico Sam Samore, è montato sulla parete di una stanza rivestita con la moquette che riproduce, in bianco e nero anch’essa, un tappeto persiano Sarough. Al netto dei possibili significati e rimandi culturali di questa stanza dei sentimenti, il ricordo va all’indimenticabile mostra veneziana del 2013, dove, per allestire le proprie opere in una successione unitaria, Stingel fece foderare tutti i muri di Palazzo Grassi con settemila metri quadri di moquette, che riproduceva un tappeto rosso ottomano del XVIII secolo, periodo di costruzione del palazzo, omaggiando il ruolo di Venezia come città di scambi con l’Oriente, ma anche omaggiando lo studio di Sigmund Freud, che di tappeti persiani aveva ricoperto muri e canapè, e, attraverso il padre della psicanalisi, evocando la cultura viennese e mitteleuropea così vicina all’artista meranese.

Davide Dall’Ombra

Scarica l’articolo in PDF

 

Leave a Reply