6. Testori al “Corriere della Sera”
A partire dal 1975 Giovanni Testori avvia la sua collaborazione con il “Corriere della Sera”. Dal 1977 comincia la pubblicazione di editoriali in prima pagina con i quali prende il posto di Pier Paolo Pasolini, scomparso pochi anni prima, e diviene responsabile della Critica d’arte del quotidiano. Quella del “Corriere” è una vera e propria nuova stagione critica per Testori, che licenziò in tutto oltre 800 articoli, usciti fino a pochi giorni prima della morte (1993). Leggere oggi i suoi pezzi, le celebri stroncature delle Biennali come i passaggi più lirici dedicati ad artisti di ogni tempo e nazionalità, spesso da lui mai trattati prima, ci interroga sulla funzione oggi delle recensioni sui quotidiani, sul rapporto tra critica, curatela e divulgazione artistica.
A Filippo de Pisis (1896-1956), Testori dedica ben sei articoli negli anni Ottanta e non manca una citazione puntuale del bellissimo quadro qui esposto, Natura morta con lepre (1942), ora conservato a Villa Necchi Campiglio, la Casa Museo milanese del FAI – Fondo Ambiente Italiano, grazie alla donazione di Claudia Gianferrari.
Allora l’occasione dell’intervento testoriano, “I chiodi della bellezza”, fu proprio la recensione di una mostra alla Galleria Gianferrari del 1981, poi usata per introdurne il catalogo, uscito solo due anni dopo.
“É ben curioso. Ciò che più, oggi, ci sorprende e anche ci afferra e ci prende sostando davanti ai dipinti del grande maestro ferrarese non sono i grumi, gli scatti, le meraviglianti, erratiche velocissime concrezioni di colori, petali e foglie, nubi, nudi, muri, il beccaccino colto nella sua discesa precipite, la povera lepre, la granseola, la tinca, il ventaglio, gli occhi seducenti e perduti dei suoi ragazzi; non quello è, ma il nero-cenere, il nero-seppia, il nero-fumo, il nero-velluto dell’ombre che ogni essere, ogni cosa, anche la più minuta, getta sul piano vacillante e insieme sterminato su cui, più che posare, sembra transitare per un attimo; l’attimo, intendo, prima che la gioia d’esser vista, e captata (anzi, abbracciata) passi via e finisca nel nulla.
Certo per raggiungere questa impalpabilità attimale, per farsi, insomma, cantore del “transito”, era necessario che il pittore sentisse, avvertisse, e annusasse, come pochi nel nostro secolo seppero, la bellezza d’ogni essere e di ogni cosa; che la sentisse, avvertisse e annusasse quasi solo dall’epidermide e dalla pelle; come se esseri e cose non avessero né ossa, né strutture; ma fossero il loro solo colore, la loro sola luce, il loro solo profumo. Eppure era questa la strada per giungere d’istinto, e all’istante, a toccare la minaccia che si muoveva dentro la loro struttura e dentro le loro ossa”.
Davide Dall’Ombra