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Quello spicchio di cielo da Matasci

“Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così!”.

Attraversare la profondità, forse ultimamente inespugnabile, di queste parole significa concedersi il privilegio di pensare a una giornata come quella di oggi in una prospettiva ostinatamente umana e naturalmente antiretorica. Un privilegio, quello che ci regala Etty Hillesum – la scrittrice olandese uccisa ad Auschwitz nel 1943, prima di poter compiere trent’anni – che ben si accorda con la chiave di lettura figurativa che ci offre sotto casa questo nuovo allestimento del “Deposito” della Fondazione Matasci a Cugnago-Gerra. È una frase che incide sulla nostra pelle un giudizio incomprimibile di speranza, e che troviamo nel libricino dato a corredo della mostra. È in principio ma pudicamente collocata in posizione defilata, prima del titolo della rassegna: “Mai più”. Seguono poche parole, che si limitano a constatare l’attualità, forse l’ineluttabilità, della violenza e a indicare l’attributo di testimoni oculari della guerra agli artisti scelti.

Un grido, quello della Hillesum, che è più un compagno di viaggio che un monito, da tenere in controluce, quadro dopo quadro, in questo nuovo allestimento tematico, che presenta alcune delle oltre mille opere conservate dalla Fondazione. Disporle a parete ha voluto dire, semplicemente, far emergere una vena ben presente nella raccolta, un’anima connaturata alla collezione stessa, che ha sempre prestato grande attenzione al tema della sofferenza e della guerra in particolare, affiancando e intrecciando la matrice del naturalismo informale, che accomuna altrettanti capolavori a disposizione.

Un filo spinato

Sono linee collezionistiche che hanno un nome e un cognome. La naturalezza, placida ma tenace come le pietre che si lasciano consumare dalla corrosione del fiume resistendogli, è la nota costante che emerge ogni volta che ci si rapporta con Mario Matasci, deus ex machina della Fondazione, voluta per dare un futuro alla sua creatura e all’accolita dei suoi “figli”. Ben più vicino ai novanta che agli ottanta, Matasci ci accompagna in questo nuovo viaggio figurativo, invitandoci a riflettere attraverso l’opera di artisti spesso obnubilati dal tempo, talvolta abbandonati o sfiorati dal mercato e dal collezionismo museale, ma presentati da opere che si difendono da sé e che non han timore di aspettare la giustizia del tempo. La scintilla scocca in mostra grazie a una foto di un autore ancora ignoto, che coglie il valore emblematico e totemico, proprio perché storico, del filo spinato. Un segno primario e immediato di coercizione e sofferenza che ritorna in diverse opere presenti, da Guido Gonzato, autore amato da Giuseppe Ungaretti, a Edmondo Dobrzanski, e che accumuna le guerre e le rivolte che si stanno scalando da oltre un secolo.

Lungo la storia

Perché Matasci non si limita alla Seconda Guerra Mondiale, ma coglie la profondità di un tema che attraversa il suo Novecento, affiancando, in una via Crucis sconcertante, le sofferenze sopportate da un’Europa ferita non solo dalle due Guerre. Dalle coercizioni sfociate nella protesta antibolscevica di Kronstadt (1921), ritratta da un immenso Franco Francese, si passa alla rivolta d’Ungheria (1956), al centro di un rarissimo documento a olio di Gianfranco Ferroni, arrivando alla Primavera di Praga (1969), protagonista della tela di Dobrzanski.

Proseguendo, si affacciano al proscenio le bellissime incisioni di Käthe Kollwitz, una delle più importanti artiste riscoperte dall’occhio di Matasci – non a caso recentemente celebrata dal Kupferstich-Kabinett di Dresda con una bellissima mostra – capace di porre al centro il dramma delle madri, cui il conflitto strappa i figli per il fronte della Grande guerra. Madri che ritroviamo intente a cercare i corpi dei figli e dei mariti, come recita il titolo di una delle scarnificanti chine di Johannes Robert Schürch, altro grande merito conoscitivo di Matasci. E sono solo alcuni dei nomi, temi e storie che s’intrecciano in mostra, fornendo profondi e diversificati livelli di lettura. Ci si avvicina così ai nostri giorni, al tema più che mai attuale delle migrazioni, grazie alle vibranti sculture e ai dipinti dell’iracheno Selim Abdullah, opere che friggono di dolore, scosse da un fremito di sconcerto, capaci di traguardare l’occhio attraverso lo sfocato miraggio dell’aridità e il caotico affastellamento dell’accumulo contemporaneo.

Oltre la retorica

Di oggi, di una sofferenza che va ben oltre la pur diffusa ed esemplare drammaticità della guerra e dello sterminio dei campi di concentramento in particolare, parla un’opera che non a caso si pone a naturale conclusione della mostra. Ciò che spacca la retorica della memoria è, infatti, l’attualità del dolore in quanto tale, non solo delle sofferenze subite dai popoli. Un dipinto come quello riprodotto qui al centro è il manifesto di un grido eterno, ancestrale e innato nel genere umano. La Donna che piange sulla strada (1959) di Franco Francese è un quadro che potrebbe stare, senza alcun complesso d’inferiorità, al MoMa di New York come alla Tate Modern di Londra, bello come un De Kooning chiamato a fare i conti con il ritorno all’ordine dell’espressionismo astratto. Questa donna non compie un gesto inconsulto e non racconta i dettagli del suo dolore, ma compie un atto eroico, portando fuori dal suo appartamento le lacrime che, quasi per definizione, si versano tra le pareti domestiche. È un esporre ed esporsi che assurgono la quotidianità a lirismo, in un procedere lancinante che anticipa la resurrezione dei corpi, dove Medea e la casalinga di Razzino hanno lo stesso diritto e dignità di laio.

Il vero tra libertà e bellezza

Ma, anche di fronte al capolavoro, la frase della Hillesum con cui abbiamo aperto noi e la mostra, non ci dà pace. Saremo in grado di far nostra – anche grazie al conforto armato dell’arte – la nota vincente della libertà e della bellezza? Matasci, forse com’è giusto che sia, certamente in piena coerenza con il suo temperamento e modus operandi di una vita, nel portolano che ci ha accompagnato in mostra, sembra fare un passo indietro: “La verità del male. Alla fine di questa esposizione non si può certo essere sereni, ma si ha la sensazione di aver condiviso qualcosa di vero”. Il vero. Appar chiaro che “il vero” cui si appoggia questa frase non potrà essere solo la conoscenza dell’accaduto e la sua raffigurazione. Non ci basterà neanche la verità storica, cui sembra alludere la citazione de La verità del male, il celebre libro con cui Bettina Stangneth rivide la figura del nazista Adolf Eichmann, in antitesi con un altro caposaldo del tentativo di comprensione dell’atrocità dei campi di concentramento: la Banalità del male di Hannah Arendt. Il vero è una parola che condensa, senza dilapidare il patrimonio di coscienza e conoscenza personali, tutta la necessità di bellezza e libertà che l’uomo non potrà mai sopprimere in sé e negli altri. Del resto, cosa avrà spinto la donna che emerge nel quadro di Francese a esporsi sulla strada, ad allungare quel piede nel turbinio del vivere, a partecipare di un movimento che le scorre davanti se non la ricerca di quello “spicchio di cielo”? Siamo con lei. Oltre le lacrime, tra i capelli, attraverso le mani di quel volto che avanza nella vita.

davide@dallombra.it

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“Mai più”, mostra al “Deposito” della Fondazione Matasci per l’Arte, via Riazzino 3, Cugnasco-Gerra, aperta la domenica dalle 14 alle 17 e su prenotazione.

Info: +41 (0)786016024arte@matasci-vini.ch

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