Diario londinese 5. Arte Astratta

Nel tentare di dare qualche chiave di lettura sulla pittura figurativa, abbiamo messo a tema quello che rimane un presupposto fondamentale anche per intraprendere un viaggio nell’arte astratta. Si tratta dell’impossibilità della pittura, nel suo tentativo di rappresentare la totalità del reale, di limitarsi a dipingere il visibile; della necessità che avverte di “sconvolgere” l’immagine per far emergere la potenza del reale, la sua complessità.  Non tutto ciò che è reale è visibile e quel “di più” che è la vita, dopo l’avvento della fotografia, l’artista sente di non poterlo lasciare tra le pieghe della pittura, intrappolato in un panneggio o in un’espressione, ma di doverlo far sbalzare fuori con tutta la sua violenza e potenza, foss’anche distruttiva.

Francesco Gesti – Circa un secolo e mezzo fa l’arte ha urtato contro i mezzi di riproduzione meccanica del reale come contro un iceberg: il naufragio è stata l’inevitabile conseguenza di questo incidente. Ora, in seguito all’affondamento di un transatlantico più imponente del Titanic, qualcuno ha perso la vita, nel senso letterale del termine. Per moltissimi la pittura è rimasta inguaribilmente provinciale o occasionale, comunque fuori tempo massimo, decorazione da salotto buono. In altri ha portato alla spasmodica ricerca di modalità sensazionalistiche estreme o gratuite. Qualcun altro, più tenace, ha invece tentato di ritrovare un approdo a terra e lo ha fatto a costo di innumerevoli ed evidenti ferite, così che i lividi sui corpi dei naufraghi della Medusa di Géricault sembrano divenuti l’unico vocabolario necessario di una pittura che porta naturalmente i segni della catastrofe, che nello scempio ha riconosciuto la sola forma possibile di sopravvivenza e di rivelazione, come accade nelle opere di Francis Bacon e Jenny Saville che abbiamo proposto nelle scorse settimane.

D. D. – E poi c’è stato chi ha cercato di arrivare alla meta con una sorta d’inversione a “u”, andando nella direzione opposta, nell’apparente annullamento della realtà: l’arte astratta.

F. G. – C’è stata, storicamente, una terza via: c’è stato chi – per continuare nella metafora del naufragio – trasportato al largo dalle correnti marine, ha osservato come non fosse più possibile né sensato tornare a terra e ci si dovesse allora adattare alla condizione di vivere nell’abisso, e in questo ha affrontato la necessità di una metamorfosi evolutiva per continuare a vivere, sviluppando una forma di respirazione branchiale, dal momento che i polmoni sarebbero stati ormai inservibili in un habitat diverso e ancora sconosciuto. Così l’astrattismo ha inteso trasformare lo status vitale che fino ad allora la pittura aveva avuto: ha esasperato quello scarto fra reale e visibile, tentando di dare aspetto, in diverse esperienze lungo l’arco del Novecento, a un livello di coscienza delle cose che, pur reale, non ha una natura fisicamente percepibile per mezzo della vista. Per la prima volta ciò che veniva rappresentato non era un oggetto fra gli oggetti, ma l’espressione di una dimensione conoscitiva degli oggetti stessi, realmente percepibile, per quanto non naturalmente visibile.

D. D. – In altre parole, il pittore ha sentito la necessità di rappresentare non la realtà che ci circonda, ma l’impatto che la realtà ha su di noi, in termini di conoscenza, di emozioni e di esperienze. Sembra un triplo salto mortale, e in effetti lo è stato, ma in autori come Rothko – che hai presentato sabato scorso – è evidente che qualcosa è accaduto, che l’obiettivo è stato in qualche modo centrato. Sono opere di grandissima concentrazione vitale, di fronte alle quali si ha la possibilità di venire a contatto direttamente con la percezione del reale più che con il reale stesso. Uno spostamento vertiginoso che, a ben guardare, è nella stessa natura dell’arte, che non nasce per fotocopiare ciò che si vede.

F. G. – Per il figurativo, si era detto di come quegli elementi di scempio, o quelle soluzioni non naturalistiche, fossero servite a superare la funzione rappresentativa, per liberarne una rivelativa; ecco, per l’astrattismo non è diverso: solo che questa via espressiva ha definitivamente scaricato ogni dettaglio che faccia una anche minima concessione all’aneddotico, al circostanziale; è un’arte volta alla rivelazione per una via assolutamente pura, non riverberata dalle cose.

D. D. – Questo richiede a chi guarda il quadro uno sforzo ancora più grande, una disponibilità che non sembra per tutti…

F. G. – All’apparenza sembra più difficile da comprendere rispetto alla figurazione. Ma è davvero così? Mi sembra che l’apparente maggiore comprensibilità della figurazione – anche di quella che abbiamo chiamato “rivelativa” – poggi spesso su un fraintendimento: esiste probabilmente un atteggiamento psicologico simile all’autodifesa, per cui, per fare un esempio, davanti a una figura “incidentata” di Bacon compiamo l’atto inconsapevole di aggrapparci a quel tanto o poco che è rimasto di riconoscibile per ricostruire la figura stessa nella sua ipotetica interezza originaria. È come se cercassimo di riparare mentalmente ai danni dell’incidente e una volta che questa ricostruzione è ultimata siamo rassicurati, crediamo di avere capito.

D. D. – Ma così facendo, anche se inconsciamente, annulliamo ogni necessità dell’opera, rimane una rappresentazione di un “papa che urla su una sedia” che, tutto sommato, mi sembra un po’ poco. Certo con l’arte astratta ogni sostegno viene meno e l’impoverimento del significato è più difficile.

F. G. – Quando abbiamo a che fare con un’opera astratta siamo in alto mare – e nel caso specifico di Rothko, ci troviamo in quel braccio di mare che sovrasta la Fossa delle Marianne – non si intravede neanche lontanamente un lembo di costa; non ci sono appigli a portata di mano, neanche le tavole galleggianti di una scialuppa fracassata; non ci si può più affidare ad alcun senso dell’orientamento: l’opera astratta ci mette, anche nostro malgrado, nella condizione puramente contemplativa di un naufragio leopardiano, che potrà essere dolce ma anche, decisamente, amaro.

D. D. – Si tratta di una zoomata nel profondo dell’estrema complessità dell’uomo e del suo sentire che non è possibile ottenere con un’opera improvvisata. Sono dipinti che hanno richiesto un lungo lavoro anche tecnico, per arrivare a quelle che possono sembrare solo macchie di colore. Arrivare all’estrema sintesi, all’estrema concentrazione, che è lì pronta ad esplodere negli occhi di chi è disposto a guardare l’opera, è un punto di arrivo che richiede tempo.

F. G. – È per questo che il tempo è una dimensione sostanziale di quest’arte, che chiama anche lo spettatore a darne del suo, invitandolo a un esercizio contemplativo attraverso un linguaggio che non è quello che abitualmente utilizziamo. Per certi versi è molto simile alla musica classica, che raramente si esaurisce in un breve ascolto e che non rappresenta immagini, semmai le evoca, non avendo per sua natura un linguaggio iconico.

D. D. – Alla mostra di Rothko a Londra, dopo la prima impressione di grande maestosità ed equilibrio, caratteristiche che, insieme, denotano che ci si trova di fronte all’opera di un genio, sapevo di dover dedicare molti minuti all’osservazione di ogni quadro, per lasciare che quelle grandi campiture cromatiche mi dicessero qualcosa. Dopo un po’ hanno cominciato a “parlare”, nel senso che un certo quadro mi ha travolto con una potenza espressiva che era quella femminile: era come se di fronte a me ci fosse tutta la potenza, anche sensoriale, della femminilità, con il suo accendersi di gialli infiammati sul rosso. Non si trattava di una donna precisa, una mamma o un’amante, ma è come se si fosse squadernata davanti a me tutta la grandezza misteriosa e insondabile della donna, pianeta che, lo ammetto, faccio grande fatica a comprendere… Di fronte a un altro non ho avuto dubbio alcuno: “Paternità”. L’accostamento di colori bruni, dipanati su un grandissimo quadro orizzontale, mi ha presentato in un sol colpo tutta l’esperienza di forza e dolcezza con le quali solo un padre sa lambirti. Se avessero rappresentato una donna o un papà, probabilmente quelle opere avrebbero evocato comunque esperienze personali ma difficilmente avrebbero potuto toccarmi così in profondità, facendomi percepire l’essenza stessa della femminilità e della paternità. Nel caso dell’opera figurativa siamo di fronte ad esempi che non esauriscono mai la grandezza del mistero che ci aiutano a capire: con l’arte astratta ti sembra di poter essere travolto dall’essenza stessa.

F. G. – È il frutto di un coinvolgimento che gli stessi artisti chiedevano: «I nostri dipinti non possono essere spiegati con una serie di istruzioni. La loro spiegazione deve scaturire dallo stabilirsi del rapporto tra quadro e spettatore. L’esperienza di fruizione di un’opera d’arte è un vero matrimonio di spiriti diversi. E, nell’arte come nel matrimonio, la mancata consumazione è motivo di annullamento» (A. Gottlieb, M. Rothko, 1943). Un’affermazione che può valere, allo stesso modo, anche per chi è di fronte ad un’opera figurativa.

D. D. – O davanti allo spettacolo della vita.

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