Diario londinese 4. Mark Rothko
di Francesco Gesti. Ma l’edificio nasconde anche un altro motivo d’attrazione; in questo caso, però, non per tutti. Un secondo architetto, Philip Johnson, allievo e assistente americano di Mies, ha installato giù, ai piani bassi, un ristorante che inscena il lusso secondo una concezione del tutto nuova, con ambiente e menu raffinatissimi, molto caro; anzi: il più caro ristorante che sia mai stato costruito. Secondo le intenzioni di committenti e progettisti, il Four Seasons doveva essere l’esclusivissimo Olimpo dove una classe naturalmente altolocata di semidei avrebbe celebrato le divinità della sofisticatezza e del buon gusto, dello stile più contemporaneo e proibitivo nella commistione mai tentata prima di alta cucina e arredo hyper designed, fino al dettaglio di materiali esotici nei marmi arabescati e nell’ebano di Macassar delle toilette: il Four Seasons doveva essere il Tempio dell’Arte, e come tale aveva bisogno del più elegante degli officianti. Significativamente – ma anche paradossalmente – la scelta dei proprietari per la realizzazione di una serie di dipinti murali che avrebbero completato ed esaltato, in una conversazione a livelli altissimi, l’ambiance del ristorante, cadde su Mark Rothko, un artista comunemente considerato “espressionista astratto” e, almeno apparentemente, di difficile comprensione, ma che negli ambienti intellettuali della New York di fine anni Cinquanta godeva di una rispettabilità pari a quella che Picasso conobbe a Parigi negli anni Venti. È noto che Rothko non riuscì mai a portare a termine la serie dei Seagram Murals, rimasta, oltre che incompiuta, irrisolta nell’ideazione e nell’ipotetica disposizione definitiva, e che, dopo l’assiduo rovello durato un anno di lavoro inesausto su un’idea e di ripensamenti continui sulla validità del progetto, della realizzazione di tele monumentali e bozzetti minuscoli su cartoncini, ma anche sketches a grandezza naturale che conservano la medesima monumentalità dei lavori compiuti, nel 1959 si ritirò dall’incarico restituendo l’anticipo ricevuto e trattenendo le tele che vennero in seguito divise e sparse fra le collezioni della Tate Gallery di Londra, della National Gallery of Art di Washington e del Kawamura Memorial Museum of Art di Sakura. La vicenda delle grandi e silenziose tele dal costante riverbero del fondo color vinaccia entra subito e di diritto nella mitologia delle storie dell’arte del XX secolo; e sembra quasi che l’incompletezza sia il destino naturale di questo ciclo su cui grava forse una maledizione, un presagio nefasto oppure una profezia di rivelazione finale al cui disvelamento non siamo ancora pronti e che ne rende impossibile un’attuale riunificazione, un prodigio forse visibile secondo cicli millenari, come l’allineamento dei pianeti, delle costellazioni… E di infrangere il sigillo non è stato possibile neanche alla Tate Modern che con Rothko. The late series (fino al 1 febbraio 2009) offre al pubblico un’edizione purtroppo ancora parziale dei murali (unico punto, questo, di velata delusione in una mostra altrimenti perfetta nella sua essenzialità), accompagnata dai dipinti neri del 1964 e le ultime serie Brown and Grey e Black on Grey. Ma cos’era successo allora con il Four Seasons? Per quale ragione, dopo un viaggio con la moglie Mell e la figlia Kate in Italia – dove avverte una “profonda affinità” con le pitture murali di Pompei e rimane affascinato dagli affreschi di Beato Angelico nelle cellette di San Marco a Firenze – decide di rifiutare un ingaggio che si può immaginare davvero remunerativo e di rinunciare alla vetrina forse più prestigiosa di New York? A quale intuizione del mondo era arrivata, negli anni, la sua pittura? Come accadde a una generazione intera di avanguardisti della East Coast, anche Markus Rothkowitz (Dvinsk, 1903) agì da principio sotto gli influssi della corrente di una figurazione surrealista proveniente da oltre atlantico; tuttavia, tanto la figura quanto i principi onirici manifestarono in breve segni di cedimento: «fu con estrema riluttanza che mi resi conto di come la figura non fosse più utile ai miei scopi. Venne un momento in cui nessuno di noi riusciva più a utilizzare la figura senza mutilarla» (e non c’è già qui un’assonanza perfetta con lo “scempio” di Bacon?). «Il surrealista ha svelato il vocabolario del mito e ha stabilito una corrispondenza tra le fantasmagorie dell’inconscio e gli oggetti della vita quotidiana. Ma io ho troppo a cuore sia l’oggetto che il sogno per vederli dissolversi nell’inconsistenza vaporosa del ricordo e dell’allucinazione». Da qui in avanti i quadri di Rothko entrano nella loro stagione certamente più profonda e nota e la pittura diventa più rarefatta, le pennellate svaniscono e le tele sembrano piuttosto imbevute di colore, spettroscopi che registrano frequenze cromatiche: null’altro che aloni, apparentemente; ma «non esiste buona pittura sul nulla. Noi sosteniamo che il soggetto è fondamentale e che l’unico soggetto autentico è quello tragico ed eterno. [I quadri] non hanno alcuna associazione diretta con esperienze visibili, ma esprimono la legge e la passione degli organismi viventi. Il vero modello dell’artista è un ideale che abbraccia la totalità del dramma dell’uomo, piuttosto che una focalizzazione sulla specificità di un singolo individuo. Il suo modello viene a coincidere con la totalità dell’esperienza umana. In questo senso si può affermare che l’arte intera altro non è che il ritratto di un’idea». Indubbiamente si tratta di immagini astratte, ma anche in merito all’astrazione occorre a Rothko il dovere di precisare: «I miei non vanno considerati dipinti astratti. Il loro scopo non è neppure quello di creare o enfatizzare una certa disposizione coloristico-formale. Il fatto che si allontanino da una rappresentazione naturalistica della realtà è un tentativo di conferire una maggiore intensità all’espressione del soggetto, non di dissolverlo o di celarlo. [Dell’astrattismo] non condivido la negazione dell’evento, né tanto meno la sua negazione dell’esistenza materiale della totalità del reale. Accetto la realtà materiale del mondo e la sostanza delle cose. Mi limito a estendere la portata di questa realtà, arricchendola di elementi tratti dall’esperienza dell’ambiente a noi più familiare. Insisto sulla parità dell’esistenza del mondo generato dalla mente umana e del mondo generato da Dio al di fuori di essa». È un’immagine, dunque, che «rivela qualcosa di reale e di esistente in noi. Di conseguenza, se il nostro lavoro incarna questi principi, esso non può non insultare coloro che sentono una profonda affinità spirituale con la decorazione di interni, con i quadri d’arredamento, quelli per il caminetto…». Ecco, allora, perché l’allestimento al Four Seasons non avrebbe funzionato: non avrebbe funzionato il tintinnio dei cubetti di ghiaccio nei bicchieri da cocktail, non i discorsi d’affari dei pranzi di lavoro né le cene di gala, gli occhiali bizzarri e gli abiti, i gioielli, le acconciature appariscenti; i «ciao cara ciao caro anche tu qui» e i baci dati al volo, salutandosi, senza che le guance neanche si tocchino; i paparazzi fuori e l’ostentazione, l’esagerazione volgare di quello che sui tabloid iniziava ad apparire come il bel mondo… La comprensione del mondo silenziosa e profondamente lirica di queste opere aveva bisogno di un luogo in cui si fosse più esplicitamente chiamati al pensiero, alla preghiera: alla contemplazione; aveva bisogno di una Chapel, i cui dipinti Rothko realizza fra il 1964 e il 1967 e che verrà consacrata a Houston a fine febbraio 1971, un anno dopo il suicidio avvenuto alle prime ore del giorno nello studio al 157 di East 69th Street. |