Diario londinese 3. Pittura figurativa

D.D. – Credo che potremmo ripartire dalle parole di Bacon a Sylvester, pubblicate nel libro d’interviste che rimane, a mio parere, una bussola per la pittura figurativa del Novecento: «Infatti, con questi meravigliosi mezzi meccanici per registrare il reale, che cosa si può fare se non spingersi fino a un punto molto più estremo, dove si dà un resoconto del reale non come semplice dato reale ma su molti livelli?». Credo che al fondo sia ancora oggi questo il punto e che rimanga un presupposto fondamentale che anche il pubblico è chiamato a tener presente nell’avvicinarsi alla pittura figurativa contemporanea, che comunque resiste.

Francesco Gesti – Al Frieze abbiamo visto tanto e, sorprendentemente, tanta pittura, proprio mentre i mezzi di riproduzione meccanici o digitali hanno, dai tempi di Bacon, continuato a sviluppare capacità a tutti gli effetti ineguagliabili sul piano della pura resa mimetica. Allora come oggi credo che il problema sia lo stesso: credo che il punto critico di una possibile attualità della pittura figurativa alberghi in quelle regioni estreme dove alcuni hanno saputo spingersi per dare un’immagine riconoscibile al sentimento di un reale che non sia solamente apparente. Noi vediamo, per così dire, la fine del problema, il lato scoperto costituito da un’immagine dipinta, ma prima del quadro è occorso al pittore arrivare con la propria intuizione creativa a riconoscere l’insufficienza di un’immagine solo rappresentativa e tentare una possibile soluzione per dare conto con i soli mezzi di disegno e colore a un “lato oscuro” delle cose e del mondo normalmente nascosto alla vista.

D.D. – Mi pare che vada detto che non tutta la pittura accetta di mettersi in gioco ad un livello così vertiginoso, le case sono piene di pittori contemporanei che paiono appagati dalla pura descrizione del reale…

F.G. – Sì, certamente c’è poco da dire di una pittura che ha una legittima ma limitata funzione decorativa… Appagherà o arrederà l’occhio distratto degli abitanti della casa che la ospita, ma è una resa rispetto alle responsabilità e potenzialità che ha per noi l’opera d’arte.

D.D. – Già: questione di vita o di morte… Come diceva l’amato Testori… In un certo senso l’impossibilità di rappresentare “solo” ciò che si vede può aver aiutato ad alzare il tiro?

F.G. – Credo di sì. A partire dalla prima metà dell’Ottocento, la necessità di far fronte alla fotografia ha aperto una serie assolutamente nuova di domande a cui la pittura ha opposto inedite invenzioni formali. Forse i primi a rendersi conto, con l’avvento e il velocissimo perfezionamento delle tecniche fotografiche, che il compito della pittura non sarebbe più stato primariamente rappresentativo, sono stati gli Impressionisti che hanno tentato un superamento o almeno un differenziamento sul piano percettivo.

D.D. – Gli Impressionisti, eccoli! Ai tempi di Bacon forse non ne avevamo ancora fatto indigestione… Scherzi a parte, non è un caso che lo stesso Bacon, commentando i propri Papi urlanti, dicesse: «Ho sempre sperato di riuscire a dipingere la bocca come Monet dipingeva un tramonto».

F.G. – Quello degli Impressionisti è stato un primo passo, probabilmente il più immediato, ma non ci è voluto poi molto a intuire che ci si sarebbe potuti spingere ancora oltre: il problema della raffigurazione della realtà si è posto su piani molto più complessi di quello della semplice percezione fisica dei dati visivi. In sintesi: tutto il reale non coincide esattamente con tutto il visibile. Per restituire questa complessità di piani, prima della fotografia, ci si poteva accontentare della figurazione descrittiva; ora sembra invece necessario rendere esplicita la complessità, farla emergere in superficie, anche grazie alla deformazione. Uno “scempio” non fine a se stesso, perchè la pittura è chiamata ad essere un’arte rivelativa più che rappresentativa; e rivelativa in modo particolare della complessità di livelli, d’informazioni e moti che è l’uomo, in quanto punto di coscienza ultimo del reale.

D.D. – È una sfida talmente importante che al di fuori di questa strada credo non valga neanche la pena dipingere… Anche perchè i pittori d’oggi, volenti o nolenti, devono fare i conti con una tradizione ingombrante: non possono non sentire il peso di ciò che di grandioso è stato fatto prima di loro, o anche solo della continua modernità che dimostrano pittori come Picasso o Bacon stesso…

F.G. – Chi oggi scelga di percorrere la via della figurazione per compiere la traversata e toccare quelle regioni estreme del reale, deve di necessità ingaggiare un corpo a corpo con una tradizione plurimillenaria, una galleria interminabile d’immagini del mondo che sono state consegnate alla storia, una infinità di forme significanti che si può far iniziare dalle scene di caccia delle grotte di Lascaux. E l’arte figurativa contemporanea non può che sentire ancora più drammaticamente questo bisogno di elaborare un linguaggio originale, cioè moderno, per rivelare all’uomo cosa l’uomo sia, la sua propria grandezza e la sua propria miseria, la sua tragicità ed estasi, ma soprattutto il complesso inestricabile di tutte queste cose insieme. Occorre trovare un linguaggio sempre nuovo per dire una cosa vecchia quanto l’uomo. Per poterlo fare, sembra sempre necessario ritornare a Bacon, a quello “scempio” della forma che lui ha attuato in un modo del tutto peculiare e irripetuto, e i cui germi aveva a sua volta intravisto nelle più potenti raffigurazioni del reale dell’arte passata.

D.D. – Siamo d’accordo che non ci sia alternativa a questo livello, a meno di una grave rinuncia; ma mi trovo un po’ in imbarazzo a proporre ai nostri lettori dei nomi di pittori viventi che esprimano in pittura questo linguaggio nuovo… Forse non è possibile capire se un artista ha raggiunto questo livello, mentre si è immersi nella stessa realtà che rappresenta; forse dovranno passare una ventina d’anni per far depositare i detriti sul fondo e far rimanere a galla i veri pittori contemporanei… Ora non ci è difficile riconoscere la grandezza di Gerhard Richter, che venti o trent’anni fa dipingeva quadri di una modernità ancora oggi impressionante, seppur al prezzo di una certa compromissione con la pittura astratta. Al contrario, molta della pittura della Transavanguardia – Chia, Cucchi, Paladino – dopo più di vent’anni sembra tenere molto poco… Allora sembrava rivoluzionaria, ora ci sembra vecchia… Lucian Freud, pur vivente, appartiene ormai alla storia, e, comunque, benché pittore di abilità assolutamente unica, è sempre ad alto rischio di manierismo… Insomma non è facile. Ma mi sembra importante aver dato almeno una chiave con la quale guardare alla pittura contemporanea, insinuare il dubbio che si possa chiedere molto di più di una piacevolezza esteriore ad un dipinto… Anche al costo di una fatica, di un corpo a corpo con l’opera.

F.G. – Mi sembra che, fra le inevitabili cadute e gli inevitabili ammiccamenti alla fotografia e al cinema, all’immagine pubblicitaria e alla grafica che un’arte figurativa più debole deve accettare per la necessità di una sopravvivenza di passaggio, chiunque si avvicini all’arte abbia comunque la possibilità di trovare episodi di una pittura che rimane fedele alla sua originaria intenzione rivelativa del lato nascosto, o del mistero, del reale, e lo faccia nel pieno utilizzo delle peculiarità del proprio “antico” linguaggio figurativo. Forse sarà necessaria una certa fatica, un allenamento anche, davanti a una pittura complessa, non più immediatamente comprensibile, ma che mantiene attivi molti appigli alla realtà visuale conosciuta e condivisa e a cui sarà necessario, ma non sufficiente, aggrapparsi per un iniziale apprezzamento di queste opere. Anche nello “scempio”, si potrà però ammettere che quest’arte è bella perché riconosciamo i nostri stessi tratti in quanto essa rivela.

D.D. – Io dico sempre che il primo problema dell’arte contemporanea sta in chi la guarda. Nel senso che richiede una grossa umiltà nello spettatore, una grande capacità di mettersi in discussione, il non aver deciso prima cosa lo può affascinare… ma forse questo è un problema generale di come guardiamo alla vita. In ogni caso la pittura non morirà, perché continua a dirci qualcosa di noi, a dirci chi siamo, o almeno continua a provarci…

F.G. – Trattando di epica cinquecentesca, a chi metteva in dubbio fosse possibile ancora oggi entusiasmarsi e restare coinvolti dalle gesta cavalleresche, Pio Rajna rispondeva che «l’uomo non è mai stanco di sentir parlare dell’uomo».

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