Intervista a Pierre Casè

DD: Un artista ticinese a Venezia. Da dove iniziamo?

Era qualche anno che la Fondazione Forberg mi aveva proposto di occupare l’appartamento e l’atelier che mettono a disposizione a un artista e alla sua famiglia per sei mesi a Palazzo Castelforte. E con entusiasmo, appena possibile, ho accettato. Venezia è una città splendida e al di là della retorica sulla sua decadenza, ogni sasso, ogni muro trasuda arte e storia. Si sta dimostrando un’esperienza fondamentale per me… Sto pensando molto al mio lavoro, a dove sono arrivato e a cosa mi piacerebbe realizzare.

Intanto ha allestito in città la sua mostra più importante?

Sì, in occasione del mio soggiorno e, avendo saputo che la Chiesa di San Stae, normalmente sede della sezione svizzera alla Biennale, veniva ceduta, nel resto dell’anno, ad artisti non certo più giovanissimi… ho cominciato a lavorare a un progetto adatto a questo spazio, insieme all’amico architetto Quaglia. E con mio stupore il progetto è piaciuto alla commissione ed è stato approvato. Lavorare per San Stae per me era una sogno, una chiesa così importante per la Svizzera, con la facciata del ticinese Domenico Rossi e restaurata dalla Fondazione Svizzera Pro Venezia nel 1979. E poi fare una mostra qui vuol dire poter incontrare e discutere con moltissime persone, moltissimi giovani, italiani, inglesi, tedeschi o dei paesi dell’est… vengono, mi riconoscono dalle foto e chiedono…

Al centro della navata torna, declinato in un’installazione grandiosa, un soggetto che da qualche anno ha totalmente assorbito la sua pittura, gli emisferi del cervello… tutto cominciò con una brutta malattia nel 1999?

È stata un’esperienza terribile. In seguito a un ictus la metà sinistra del mio corpo rimase paralizzata per moltissimi mesi. Poi, con la costante riabilitazione, l’aiuto dei medici e il sostegno della mia famiglia, pian piano ricominciai a camminare, a fatica, col bastone, ma a camminare. Dopo quasi tre anni tornai definitivamente al mio lavoro. Con me avevo la TAC del mio cervello: 36 immagini quasi identiche, ma diverse, in cui erano rappresentati due emisferi del mio cervello. Capii che dentro a quella materia molle c’era tutto me stesso, che senza quei due emisferi cerebrali, noi non esisteremmo. Rappresentarlo è diventato un modo per esorcizzarne la perdita, anche un gesto scaramantico se vuole.

Non è solo un problema fisico evidentemente…

Infatti. Un attacco al cervello è un attacco alla vita, alla memoria, alla possibilità di trattenere le cose più care ed è terribile… Per questo ho chiamato il progetto di San Stae: Mnemosine per Venezia, perché la memoria, il ricordo è fondamentale per questa città, oltre che per ognuno di noi.

Uno spazio così ampio necessitava di una realizzazione di grandi dimensioni, ma c’è evidentemente una scelta nell’occuparlo con 1040 opere di piccolo formato…

In effetti avrei potuto realizzare opere di due metri per due, come ne ho fatte in passato, ma per me era importante restituire l’idea di serialità o, meglio, come la chiamo io, di “serialità differenziata”. Nella società in cui viviamo siamo attaccati in tre modi: con l’omologazione, l’inquadramento e la riduzione a numero. Ecco, queste tre minacce le ho tradotte nella mia opera: più di mille Essenze craniche, come amo siano chiamate, omologate, molto simili tra loro, tutte dello stesso formato perfetto, quadrate 30 centimetri per 30, e tutte numerate, direi marchiate dal numero, come ci vorrebbe questa società. Eppure nel realizzarle ciò che emerge è che non c’è n’è una uguale all’altra ed è qui la scoperta. Ci speravo, era il mio intento naturalmente, ma finché non le ho viste montate tutte insieme non ne avevo la certezza. Eppure è così: sono tutte simili ma tutte diverse. Ed è così anche per l’uomo. Per quanto simili, nella natura di ognuno di noi c’è sempre qualcosa di unico e irripetibile che non può essere ridotto e inquadrato.

C’è una profonda spiritualità in questo lavoro, che si inserisce con imponenza ma discrezione nel contesto sacro.

Il mio intervento, pur adattandosi alle grandi dimensioni della chiesa, non copre nulla di essa e permette di vedere tutti gli altari e le opere d’arte, rispettandoli. Ma non solo. Volutamente le pareti convergono verso l’altare maggiore, il punto centrale della chiesa e non unicamente per un motivo prospettico: quello è il punto centrale della sacralità e queste 1040 Essenze craniche, con la vita e sofferenza che rappresentano, convergono verso quel punto preciso, un punto di fuga anche per la forte componente di morte che c’è nel mio lavoro. In questo senso, le foto di Marco D’Anna e le poesie di mio fratello Angelo poste nelle nicchie sul retro delle grandi pareti, hanno dato un contributo fondamentale al mio lavoro.

Che ne sarà di Mnemosine al termine della mostra?

Per realizzarla ho deciso di non chiedere aiuto economico ai soliti sostenitori, ma soprattutto non ho voluto chiedere e basta. A tutti coloro, e sono molti, che hanno creduto in questo progetto verranno date, in proporzione, alcune delle formelle che compongono Mnemosine, di modo che rimanga a loro qualcosa di questa esperienza straordinaria. È un gesto di gratitudine verso chi ha creduto in me e un modo perché perduri in loro la “memoria”.

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