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Maurizio Cattelan a Milano

A Milano c’è una grossa occasione da non perdere, c’è la possibilità di capire qualcosa dell’arte del mondo che stiamo vivendo, per rimanere ammirati dalla potenza espressiva di questo nostro poeta, per il quale lo scandalo, voluto, è un mezzo e non un fine…

Lo scandalo, voluto, è un mezzo e non un fine. L’opera di Maurizio Cattelan, come gran parte dell’arte contemporanea, non ha una chiave di lettura univoca, non si può appoggiare sulle certezze granitiche di qualche secolo fa, è un’arte fragile come lo siamo noi, che fa fatica a stare al mondo, che lotta per starci in modo dignitoso, per goderne, per rompere la crosta del quotidiano, per dire: “Ci sono”, per esserci. È per questo che la ricchezza delle domande che apre l’opera di Cattelan è infinitamente più interessante delle risposte che ci si aspetta da lui. Sebbene la potenza delle “immagini” che crea sia tale da bucare qualsiasi schermo e colpire l’attenzione di qualsiasi lettore che si trovi davanti ad un’immagine di una sua opera, mai come questa volta occorre vederle per aver fatto vera esperienza di esse. La prima opera presentata a Palazzo Reale è una donna crocifissa, con le mani inchiodate ad una superficie di carta bianca che sembra un lenzuolo e vestita da un camicione da notte; l’opera è presentata nel suo imballo: la cassa, gli elementi di fissaggio della scultura entrano a far parte dell’opera… Il richiamo alla posizione dell’autoritratto della Woodman e il dettaglio dei piedi sporchi in primo piano che omaggiano Caravaggio rendono l’opera lirica e convincente. La Crocifissione non è derisa, vilipesa, ma assunta, calata nella vita, e i chiodi tengono questa donna imprigionata in una realtà che non avrebbe desiderato (una malattia?). L’ambientazione delle opere è più che mai fondamentale ed eccoci allora a vedere La nona ora, l’opera del Papa (Giovanni Paolo II) atterrato da un meteorite, nella bombardata Sala delle Cariatidi, entrare a far parte di quella distesa rossa, lasciarsi attorniare da quelle pareti segnate dalla guerra, e verificare che nella vastità di quel vuoto la forza dell’opera di Cattelan grandeggia amplificata, non schiacciata… La mente fa allora un cortocircuito mentale con un’altra immagine: lo strazio di Guernica posta nel 1953 nella stessa sala per la grande mostra di Picasso e ci si interroga sulla capacità dell’artista di rappresentare il dolore umano e portare un caso particolare all’universale. Ci si chiede perché quel Papa non sia morto, perché abbia il volto sereno – nella prima versione dell’opera addirittura ha gli occhi socchiusi –, perché non sia morto, rimasto saldamente sorretto al Crocifisso. Pietro è attaccato ma non abbattuto e non è un dettaglio da poco. La sala è immersa in un silenzio siderale ma, presto, sobbalziamo: dall’alto di un cornicione un bambino suona ritmicamente un tamburello. L’immagine è struggente: quel bambino ha lo sguardo nel vuoto, è perso nei suoi pensieri, con i suoi jeans e la camicia troppo grande ci restituisce in chiave moderna tutta la struggente malinconia del Pifferaio di Manet. Se fosse un adulto penseremmo che ha rinunciato per sempre a stare nel mondo, ma è un bambino; forse non servirà nemmeno salire sul cornicione per abbracciarlo o per sederci di fianco a lui a scambiare due parole. Ci scommetteremmo, da un momento all’altro, lascerà il tamburello sul davanzale e correrà giù a fare il suo lavoro da bambino: combinare qualche disastro. Si compone così un trittico nel quale, a posteriori, lo stesso Cattelan ha riconosciuto la sua famiglia: una figura paterna che si voleva abbattere, un figlio chiuso nel suo mutismo che si esprime come può, una madre che si assume le pene del figlio andando in croce al suo posto. Per il famigerato dito medio in piazza Affari l’ambientazione è ancor più importante, anzi parte integrante dell’opera. Fatto realizzare in marmo di Carrara, è posto su un imponente basamento di travertino, lo stesso materiale con cui è rivestito il basamento del palazzo della Borsa che ne è il fondale. Il risultato è un’opera in equilibrio sorprendente con il contesto, che sembra essere da sempre in questa bellissima piazza anni Trenta (un vero gioiello sconosciuto di Milano). Allora si scopre la straordinaria analogia con la scultura fascista, la vicinanza, posizione del pollice a parte, con il saluto romano, anche se la fonte esplicita è uno degli impressionanti resti della Statua di Costantino ai Musei Capitolini di Roma. Si è scritto per mesi che si trattava di un’opera di denuncia contro il capitalismo e il sistema finanziario rappresentato da Palazzo Mezzanotte, peccato che il gestaccio, non sia rivolto verso la Borsa, ma dall’altra parte… Tutti i significati che gli sono stati attribuiti sembrano non reggere, dall’autore non vengono spiegazioni e non sappiamo nemmeno se Cattelan abbia confermato la lettura del curatore della mostra Francesco Bonami che scioglie l’acronimo del titolo, L.O.V.E, in love (amore), odio, vendetta, eternità… È solo un’immagine volgare? Sì. Ma è l’espressione di un’energia incontrollabile che abbiamo tutti noi, è il monumento alla ribellione di ognuno, a quel sacrosanto momento in cui ognuno grida di fronte ad un’ingiustizia: “No!!” Non è una bravata, ma un’immagine resa drammatica fino allo spasimo da quelle dita non piegate, ma spezzate. E chi l’ha detto che una convincente e amara immagine di “No”, sia meno necessaria delle tante dolci icone del “Sì”?

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