Biennale, ultima chiamata. Consigli per una visita

Un grande foglio bianco atterra sul pavimento di una stanza luminosa. Una guida accompagna per mano una ragazza incerta. Anche i suoi occhi sono completamente bianchi. S’inginocchia sul pavimento. A terra i barattoli davanti a lei: «Che cos’è questo?» «Il giallo» «E questo?» «Il verde»…

Le mani grassocce cominciano a esplorare quella terra incognita e senza spessore fino a cercarne i confini: sta prendendo le misure. «Dipingi un tuo ritratto». «Va bene»…

È l’inizio del video più toccante della 55a Biennale di Venezia (fino al 24 novembre), realizzato dal polacco Artur Zmijewski, dopo aver convinto alcuni non vedenti a impegnarsi con mani e piedi nella realizzazione di un proprio ritratto e di un paesaggio.

L’impegno profuso, il coinvolgimento con un colore di cui hanno un ricordo infantile o solo per sentito dire, le forme della mente che prendono corpo solo per gli altri che potranno vederle, i goffi corpi che si spendono totalmente per dare alla luce senza vedere la luce… È un’immagine straordinaria dell’arte contemporanea, o dell’uomo in genere che cerca il bello con tutte le sue forze, travalicando gli schemi e attraversando il proprio handicap.

La Biennale è ancora la manifestazione d’arte contemporanea più importante del mondo. Nell’Italia dei mille piangersi addosso, questo rimane un dato. Passeggiare tra le due immense sedi principali, senza contare i Padiglioni nazionali sparsi per la città, permette di tastare il polso dell’arte e di ricevere mille suggestioni comuni e contraddittorie quanto l’uomo. Per un critico tassonomico recensire la Biennale è una tortura, tante sono le cose da raccontare e di cui tener nota. Si vorrebbe indagare e raccontare l’affascinante storia che sta dietro alle opere migliori, spesso necessaria alla loro comprensione, o far emergere il filo rosso tessuto dai curatori… Ci limiteremo a segnalare in due puntate alcuni artisti, opere o padiglioni nazionali che ci hanno attratto, utili a una visita in extremis. Ecco quindi una scelta personalissima e faziosa nel mare magnum delle mostre proposte, in una Biennale che complessivamente non ci ha strapazzato il cuore, ma che certamente ha sollecitato non poco la mente, insegnando più che ammaliando.

Lungo il Canal Grande

Preso il traghetto 1 dalla stazione, si attraversa tutto il Canal Grande, si fa passare in rassegna la città e si va quasi alla fine, appena prima del Lido: fermata Giardini. Ai Giardini si trova una delle due sedi principali, l’altra è l’Arsenale, ossia la fermata di traghetto prima, raggiungibile dai Giardini anche a piedi in 15 minuti. La mostra principale dà il titolo alla Biennale, Il palazzo enciclopedico, ed è curata da Massimo Gioni, il giovane critico italiano che ha un record personale di stima internazionale: è l’unico di cui praticamente tutti gli operatori del settore parlano bene e la sua Biennale (caso assolutamente unico) è piaciuta in sostanza a tutti. Ognuna delle due sedi si apre con una sezione della mostra principale e accoglie un gruppo di padiglioni nazionali.

Il Palazzo enciclopedico ai Giardini

La mostra di Gioni, in effetti, ha qualcosa di ineccepibile: è chiara, pulita e ogni artista è presentato in modo sintetico da un piccolo pannello che ti permette di cogliere con chiarezza il filo rosso che accomuna esperienze così diverse. In sintesi si potrebbe dire che ai Giardini l’intento è esemplificare il rapporto tra pensiero e arte, ossia l’enorme peso che ha la mente, il sogno e l’inconscio nell’arte contemporanea. La partenza, spiazzante, è riservata quindi al  celebre psichiatra svizzero Carl Gustave Jung, che le proprie visioni (incubi-allucinazioni) le ha disegnate in un grande e fantasmagorico codice illustrato. Nella sala dopo, le pareti sono coperte dagli appunti a gessetto colorato su cartoncino nero di Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia. Due padri ideali del pensiero moderno che aprono agli autori presentati: artisti di ogni medium, naturalmente, ma anche artisti inconsapevoli che, inseguendo una propria passione o mania, hanno dato vita a manufatti artistici di qualità. Molta Art brut insomma, ma nell’accezione più allargata: dal plasticatore di bambole al costruttore di piccole case verosimili, fino al disegnatore maniacale dell’infinitamente piccolo, geometrico o antropomorfo che sia. Tra queste scelte, particolari ma molto illuminanti, si dispongono alcuni artisti da tenere a mente.

Gli artisti da segnalare

L’Africa è tra i protagonisti di questa Biennale e in diversi punti si vedono fotografie dedicate ai suoi abitanti; fra tutte, a sorprenderci a colori sono le immagini di Vivian Sassen, che “plasma” il corpo dei suoi soggetti per farli dialogare con oggetti-colore, chiamati a presenziare come contrappunto cromatico ai protagonisti, per farne saltare in aria la forza affettiva, espressiva e pulsiva insieme. Dopo Jung, la svizzera ritorna con un’opera di Roger Hiorns, che sbriciola un altare in marmo di una chiesa abbandonata e ce ne presenta la polvere sparsa sul pavimento, lavorando sul crinale tra iconoclastia e volontà di esaltare la componente spirituale e immateriale che c’è in un corpo sacro.

Superato lo shock emozionale del video dei pittori non vedenti, per alleggerire il cuore basta passeggiare tra le piccole statue di creta che compongono l’universo plasticato da Peter Fischli e David Weiss: una cosmogonia ironica, mai superficiale, talvolta romantica, della semplice bellezza del mondo e delle piccole cose e situazioni che ci circondano.

Tra i pittori, comunque ben presenti in questa Biennale, segnaliamo il lavoro calligrafico e neo-iperealista di Ellen Altfest che si sofferma su dettagli poco nobili del corpo umano ma con una ruvida sincerità che non dispiace.

I padiglioni nazionali

Se la stanchezza obbligasse a una scelta tra i padiglioni nazionali dei Giardini, tre meritano di non essere saltati. Il primo è la Grecia, con tre video di Stefanos Tsivoroulos che raccontano una storia chiamata a farci pensare al ruolo che diamo al denaro nella nostra vita e società; una riflessione intorno all’Euro che non poteva essere più rappresentativa della nazione che ospita l’artista. Il secondo è quello degli Stati Uniti, in cui lasciarsi ammagliare dagli equilibri squilibrati di Sarah Sze, dove i pesi diventano leggeri e la leggerezza pesante, e quello israeliano, dove performance, video e scultura si fondono nella narrazione di Gilad Ratman che introduce lo spettatore, a metà strada tra verità e artificiosità, nei temi del viaggio, della vera natura delle cose, della società e dell’individuo.

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