Mario Matasci, il gallerista che difende la pittura

Mario Matasci è una di quelle persone di cui vorresti poter dire: «lo conosco da una vita». Non solo non è così, ma ho il sospetto che non siano tanti quelli che potrebbero dirlo senza peccare di supercialità. Certo la storia della sua Galleria Matasci di Tenero è una vicenda che moltissimi ticinesi conoscono, anche perché ha segnato in modo indelebile il mondo dell’arte del Novecento, con una storia che compirà, il 30 luglio, 45 anni. Del resto, lui che non ha la televisione non ha mancato l’appuntamento con Michele Fazioli e non c’è giornale in Ticino che, negli ulti- mi anni, non abbia impiegato una pagina per raccontarne la storia di enologo-gallerista. Ma se torniamo a parlare della Galleria Matasci è perché, dall’Italia, lontani dai più pertinenti e informati punti di vista ticino-tenero-luganesi, non ci sembra esaurita la necessità di occuparsi di questo passato, con i piedi nel presente e gli occhi al futuro.

«Lo vuoi?! Ho bisogno»

Si avvicinava l’estate del 1969, un giovane enologo ha un appuntamento con un altro personaggio chiave del vino ticinese: Casimiro Bianda, fondatore della Cantina San Giorgio. Matasci deve fargli visita per un problema alle viti, ma la strada per arrivare al punto di ritrovo è troppo complicata da spiegare: «Vediamoci all’osteria di Losone». Fu grazie alla noia causata dalla lunga attesa di Miro che accadde l’imprevisto. L’occhio di Matasci si posò involontariamente sul pacco sottile che un personaggio dai lineamenti poco raccomandabili teneva al suo fianco. «Vuoi vederlo?!» Senza aspettare la risposta lo strano personaggio tirò fuori un suo dipinto. «Ti piace? Lo vuoi?! Ho bisogno.» Mario Matasci non è un ingenuo, ma una cosa ce l’ha chiara: se può, evita gli attriti, non cerca mai lo scontro; non credo per vigliaccheria, piuttosto perché «non si fa» e, comunque, perché non conviene mai crearsi rogne. «Quanto vuoi?» «300 franchi». Però! Non pochissimo per il 1969, non una cifra da tenere nel portamonete, in ogni caso. Sperando che se ne dimenticasse, complice l’alcool, Mario diede al pittore il suo indirizzo, dicendogli di portare il quadro nella sua Cantina. Naturalmente non si dimenticò e, l’indomani, era già lì a riscuotere i suoi 300 franchi in cambio del primo quadro della collezione Matasci. Intanto il bisogno o il carattere, complice il merlot, gli avevano già sciolto la lingua: «Che belle cantine, posso fare una mostra qui?» «Una mostra?! Qui? No non è possibile…». Non sapremo mai in che percentuali contarono la mitezza, la carità e la curiosità del protagonista, ma per liberarsi di Ervin “Wini” Sauter dovette promettergli di poter appendere i suoi quadri da qualche parte e la scelta cadde sulle cantine di Villa Jelmini, la grande casa comprata dall’azienda agricola Matasci per fare alloggiare alcuni dipendenti. Un ciclostilato a fare da invito per gli amici, e da quella improvvisata mostra ne nacquero presto delle altre, perché il bisogno dei pittori ticinesi era tanto, la voce si sparse in fretta e Matasci fa prima a dir sì che no. Niente più che qualche chiodo, due faretti e il vino della casa, ma tanto bastò per accendere qualcosa che avrebbe cambiato la vita del giovane enologo e della storia dell’arte non solo ticinese. Cominciò tutto con un sguardo di troppo, lanciato in un Grotto di Losone dal nome che non poteva essere più azzeccato: l’Osteria contrattempi.

La Galleria Matasci

Bastarono pochi anni di quelle mostre estemporanee per far crescere la convinzione che ci fosse lo spazio, anzi la necessità, di uno luogo per l’arte contemporanea in Ticino, quando ancora erano lontano da venire i musei pubblici e le gallerie private non sembravano aver la forza di rispondere in modo continuativo al bisogno di espressione della pittura, non solo del Cantone. La passione di Mario per l’arte cresceva e, con essa la competenza. Fu così che, nel 1977, inaugurò la Galleria Matasci, e i bellissimi spazi di Villa Jelmini si aprirono al pubblico con una collettiva, a suo modo programmatica, di ben 85 artisti: Arte nel Ticino oggi. L’anno seguente le mostre passarono da due a nove e, fino al 1983, si avvicendarono a ritmo incalzante. Forse troppo, tanto che Matasci decise di dire basta. Si chiude. Erano stati anni esaltanti, non erano mancati i consiglieri, e la critica aveva riconosciuto la nascita di uno spazio libero d’espressione, capace di dar voce ad artisti quasi sempre di grande qualità. Non a caso, dall’Italia, se ne era accorto anche Giovanni Testori, che non mancò di collaborare con la galleria per alcune mostre e segnalarne altre sul “Corriere della Sera”, con tanto di elogi per «l’amico Matasci, enologo di razza e cultore delle cose dell’arte di razza ancor più rara e pregiata» (1981).

Non doveva essere stato facile smettere, dopo esperienze espositive che oggi appaiono in tutta la loro straordinarietà, dedicate non solo a ticinesi di diverse altezze cronologiche, da Filippo Franzoni a Renzo Ferrari, o alla Scuola Locarnese degli anni Trenta, ma anche ad artisti internazionali come Otto Dix, Willy Varlin, Franco Francese, Henry Cartier-Bresson e Alfredo Chighine.

Certo, in quegli anni, il mondo dell’arte stava cambiando rapidamente e il compito di far conoscere il meglio della pittura ticinese e lombarda, sembrava dover passare di mano ai musei che si stavano inaugurando, o si sarebbero inaugurati, in tutto il Cantone. Ma credo ci si sbaglierebbe a cercare fuori dalla persona di Matasci qualsiasi svolta occorsa alla sua galleria. Certo, ad ogni occasione possibile, Mario non manca mai di rimarcare che nulla sarebbe stato possibile senza la benevolenza dei fratelli Peppino e Lino, ma il cuore di questa benevolenza fu per l’appunto averlo lasciato completamente autonomo.

Mostre “personali”

Mario non si era stancato dell’arte e della pittura, che ormai era destinata a prendergli la vita, si era stancato, ante litteram, del “sistema dell’arte”. Non voleva soggiacere alle regole del mercato e degli artisti. O, meglio, voleva essere libero di dettare le proprie, di regole. Perché, nel raccontare questa storia, bisognerà tener sempre a mente che non stiamo parlando di un sognatore bohémien, ma di un enologo scaltro, responsabile, tra le altre cose, di aver fatto apprezzare il vino ticinese fuori dai confini del Cantone. Avrebbe ricominciato, certo, ma a suo modo: libero di fare due o tre mostre l’anno, curarne in modo esemplare i cataloghi, mai più di due in una stagione espositiva, destinati a diventare testi di riferimento per lo studio di ogni artista, ricchissimi di informazioni e precisione, non di rado di alcune centinaia di pagine. I nomi degli artisti furono quelli della vita e segnarono, con maggior chiarezza, la “linea Matasci” tra Informale ed Espressionismo: a Chighine e Francese si aggiunsero Ennio Morlotti, il primo nel 1987, Gianfranco Ferroni e le nuove generazioni lombarde, in particolare bergamasche, di Gianriccardo Piccoli, Gianfranco Bonetti, Bruno Visinoni e Alessandro Verdi. Insieme a loro, vere e proprie scoperte come Johann Robert Schürch, Louis Soutter e Käthe Kollowitz, che qui al centro compongono un trittico di angoscia esistenziale ed esperienziale.

A venir fuori è certamente la personalità del gallerista-collezionista che, a un amore sconsiderato per la penetrabile fertilità della materia pittorica, unisce quello per la spigolosa durezza delle vicende drammatiche della storia personale e collettiva. Una dialettica che giustifica l’assoluta predilezione per un pittore come Dobrzanski di cui, oggi (vedi il box in pagina) il nostro Matasci espone decine di opere della sua collezione, poste a dimostrazione di una certa bulimia nelle acquisizioni, probabilmente indispensabile per accaparrarsi i dipinti oggettivamente più importanti dell’artista, nonché un’attenzione capillare della sua produzione, capace di cogliere la grandezza della sorprendente opera grafica. Dobrzanski è, infatti, forse il personaggio di maggior sintesi delle due linee matasciane, visto che la sua materia e il suo non colore, più si sforzano di apparire impenetrabili, metallici, traslucidi e repellenti, più ci attraggono e avvinghiano dentro la loro vicenda drammatica.

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