Mario Matasci 2. Un presente da vivere e un futuro da progettare

Quella che vive ora Mario Matasci, arrivato a 83 anni, è una fase nuova della sua vita di gallerista e collezionista. Dopo l’esordio del 1969, l’inaugurazione vera e propria del 1977, la svolta di consapevolezza del 1983 e altri quindici anni d’attività, nel 1999 viene pubblicato un volume sui primi trent’anni della galleria: scorrono, uno dopo l’altro, gli amori di una vita, in una silloge realmente impressionante.

La copertina e il titolo, Arte a Tenero, dicono tutto: i grandi nomi sfilano con i minori sul lato destro e il nome della galleria è relegato nel sottotitolo. Una discrezione che dice molto del temperamento matasciano e della sua operazione degerarchizzante, che lo porta perfino a cacciare dalla copertina l’immagine dei capolavori più noti della raccolta. È tempo di ricapitolazioni e, nei primi mesi del 2000, la Galleria inaugura una forma più leggera che, così annunciano i giornali, non prevede più l’organizzazione di grandi mostre monografche ma di “Salotti domenicali” in cui ammirare a rotazione le opere in collezione. Lasciata Villa Jelmini, che viene riconvertita a sala multifunzionale, la galleria viene trasferita in un paio di locali sopra al negozio dell’azienda di famiglia: nasce così “Matasci arte”, dove, in realtà, le mostre continueranno lontano dall’ansia di una programmazione regolare, diradandosi senza traumi, con la naturalezza di chi non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. Nel 2010 i Fratelli Matasci danno vita ad una Fondazione, istituita per conservare e valorizzare la bellissima collezione formata, mostra dopo mostra, e tuttora accresciuta benché superi da tempo i trecento esemplari. Cinque anni fa, infne, apre al pubblico il “Deposito” di Riazzino, che completa lo spazio presso l’azienda. Si tratta di un capannone dedicato alla conservazione della collezione, ma adatto anche ad esporla a rotazione perché venga visitata gratuitamente secondo la modalità prediletta da Matasci: seduti su uno dei divani posti di fronte alle opere, accompagnati dalla musica classica, difusa dalle casse o proveniente da un piano a coda posto al centro dello spazio, magari approfondendo la conoscenza diretta con uno degli oltre 3000 volumi, messi a libera disposizione del pubblico. Si tratta di uno spazio realmente atipico, un’occasione unica per il pubblico, per vedere, accanto al Morlotti vero, il Morlotti nero, cioè Dobrzanski, e con loro, la sconvolgente Donna che piange sulla strada di Francese, i morti a Dachau di Music, e i tanti nomi delle scoperte di Matasci.

Passeggiando per il Deposito, il cuore non smette di sobbalzare, anche perché, in quarant’anni, dei pittori amati e conosciuti ha raccolto il meglio, con pazienza e cocciuta determinazione e le acquisizioni continuano ancora, intercettando i pezzi di un mercato che si dimostra oggi quanto mai miope verso certa qualità. Di Morlotti, per esempio, sflano, tra gli altri, un Adda, un Paesaggio e due Bagnanti che raccontano tutto il percorso di questo artista tanto centrale quanto in attesa di un adeguato riconoscimento che lo metta, come merita, al livello di De Staël. Così per Varlin, dai ritratti agli ambienti, o per Chighine, di cui si segue benissimo il passaggio dall’Informale all’Espressionismo astratto e così per Francese, che qui appare come uno dei grandi nomi del Novecento non solo italiani. E si potrebbe andare avanti perché, se non potremmo apprezzare proprio tutte le scelte — in alcuni casi il dover di patria ha fatto imbarcare qualche minore — certamente occorre riconoscere in questa raccolta i capisaldi di una lotta di resistenza della miglior pittura lombarda (in esteso senso culturale) che apre molte domande sul futuro e sulla funzione che spetta a questo luogo. Perché una cosa è chiara, anche nella mente di Matasci: non esiste in Ticino, ma neanche a Milano o in altro luogo, un museo che esponga questi quattro artisti capitali insieme e lo faccia con questi pezzi di prim’ordine che ne testimoniano con pienezza il contributo dato alla Storia dell’arte del Novecento.

Matasci ha costruito e difeso uno spazio di espressione per la pittura lombarda del secolo scorso, con un lavoro che ha saputo essere sinergico e complementare ad esperienze come quelle della Galleria Bambaia di Gianluigi Rebesco a Busto Arsizio (da poco conclusa) e all’opera critica militante di un Giovanni Testori o Mario De Micheli. Rebesco si sta occupando in questi mesi del riordino del proprio archivio, afnché sia possibile una storicizzazione; il lavoro compiuto in questi anni su Testori, non dovrei essere io a dirlo, credo stia valorizzandolo con intelligenza la sua opera critica; la rivalutazione dell’opera di Mario De Micheli ha vissuto qualche accidente, malgrado i premurosi e generosi lasciti dei famigliari. Giovani studiose si stanno dedicando da anni alla ricostruzione della fgura di alcuni critici d’arte e all’ordinamento dei loro archivi che, per gli artisti trattati, presentano molte analogie tematiche, se non vere coincidenze, con le vicende che qui si raccontano: mi riferisco a Franco Russoli e Alberto Martini.

In che modo far tesoro di queste esperienze in corso, pensando al futuro della Galleria Matasci? In questo senso, devo ammettere che lo spettacolo del Deposito e la grandezza della storia del suo fondatore hanno sollevato in me più domande che risposte. Di certo si tratta di un luogo che conserva una storia imprescindibile per conoscere ed amare il Novecento. Di certo ha il valore di una roccaforte di verità che va preservata. Ma è indubbio che, in futuro, questo luogo giocherà tutte le sue carte sulla penetrabilità e non sulla resistenza: sulla capacità di dar seguito, in modi nuovi e forse inimmaginabili come un incontro in un’osteria, a questa vicenda che ha il dovere, oltre che il diritto, di raggiungere i più giovani e sollecitarne la consapevolezza. Perché la bellezza è oggettiva e la qualità delle opere di questa raccolta è destinata ad accendere cuori, passioni e menti di molte generazioni a venire. Le possibilità sono tante, Mario, e di certo, ancora una volta, non si potrà aspettare che siano le Istituzioni a muoversi; occorrerà rimboccarsi le maniche, come fai da decenni sulla vigna o sulla pittura, perché tu ci insegni che non basta dir sì a un’avventura, occorre la cocciutaggine di viverla, anche sbagliando, senza sconti, come ci raccontano, nella loro diversità e vicinanza, tutti i tuoi quadri.

Scarica l’articolo in PDF

Leave a Reply