Cristo in spalla

Quando si attraversano i travagli dell’adolescenza, soppesando la propria condizione, accade di pensare che la vita sia tutta sbagliata e che niente sia al suo posto. Non ci sarebbe nulla di male nel crederlo, se non fosse che, più o meno segretamente, tale constatazione nasconde la convinzione che un giorno le circostanze dovranno, o almeno potrebbero, sistemarsi. Con il passare degli anni, ognuno è chiamato a sperimentare sulla propria pelle che le cose non stanno così e che a 15, 25 o 40 anni, la realtà non si sistema: i conti non tornano, continuano a non tornare. Comunque la si voglia vedere, drammatica o evasiva che sia la reazione personale che ne consegue, il punto di partenza e d’arrivo drammaticamente comune è che, nella vita, i conti non tornano. La Pasqua, con la sua storia d’ingiustizia suprema, ha come presupposto necessario il sacrificio del Giusto e la scelta dello stesso Dio, che potrebbe farci sparire con nonchalance, di farsi uomo mortale e di lasciarsi accoppare come l’ultimo dei ladri. Il protagonista della storia è, in tutta evidenza, uno che di conti che non tornano ne sa qualcosa, tanto che al Padre, là nell’Orto, ha provato anche a farglielo presente.

Quello che scuote e sbaraglia nel centro di questa Deposizione è che Cristo, portata all’estrema conseguenza l’accettazione della propria vita terrena, sveste il suo ruolo di protagonista, per lasciare che sia Giuseppe d’Arimatea a condurre il gioco tragico dell’azione. Ad occupare il centro dell’immagine compositiva non è, come solitamente accade, il corpo disteso di Gesù. Così come a Maria non sembra restare altro che accarezzare e baciare, per l’ultima volta, quella mano piagata fino alla morte, ormai gelida tra le sue dita, inerte sotto le sue labbra. Giuseppe, il padre sulla terra, è uscito di scena da tempo e questo nuovo Giuseppe deve prendere in mano la vicenda, facendosi motore dell’azione: bisogna seppellire il corpo di quello che diceva di essere il Salvatore.

I conti della storia non tornano, no. E questo capolavoro del gotico francese non fa niente per nasconderlo. Eppure sul volto del neo-protagonista, il volto lieto di Giuseppe che guarda in alto sereno, non sarebbe giusto non notare un’attesa colma di speranza. Nulla sapremo mai del presentimento che potesse averne Giuseppe, ma quello che certo non poteva sfuggire all’animo dell’ignoto scultore medioevale è la coscienza che dalla debolezza di quelle ossa martoriate che si lasciano portare, stava nascendo la forza di Chi pretendeva di caricare di senso, cioè di sé, non solo il peso di quella vicenda, ma della vita tutta. Del resto, anche la somiglianza siognomica tra Cristo e Giuseppe accentua in noi l’impressione che le parti tra dare e avere, nei due coprotagonisti, siano tutt’altro che definite. I ruoli sembrano invertibili, compenetrabili. Del resto il Vangelo ci dice che in quelle stesse ore Gesù era impegnato a tirar su dagli Inferi qualche decina di profeti e progenitori, tanto che fatichiamo a figurarcelo con le spalle leggere…

Ma ciò che fa crescere la commozione suscitata da quest’immagine è che, dimenticando per un momento le altre statue, il gruppo centrale, quel ganglio tra Gesù e Giuseppe d’Arimatea, potrebbe tranquillamente essere usato per raffigurare il momento in cui Gesù si fa carico di Disman, il ladrone pentito, per portarlo “con Lui in Paradiso”. In questa ambivalenza tra portato e portatore è racchiuso il più grande augurio per questa Pasqua, tornata a ricordarci che per portare Cristo occorre lasciarsi portare da Lui. Perché Dio ha bisogno degli uomini e tutte le volte che, nella nostra vita, ci scontreremo con un 2 + 2 che fa 5, potremo pensare a quest’immagine per sospettare che in quei conti che non tornano si nasconde un Uno che ha voglia di farsi portare in spalla da noi.

PER RIUNIRE UNA FAMIGLIA

Il gruppo di avori che compongono questa Deposizione, oltre a dar vita a una messa in figura della morte di Cristo dalla straordinaria potenza evocativa, è anche oggetto di un caso esemplare e virtuoso di collezionismo pubblico, capace di mettere in luce una delle funzioni principali di un Museo. Questi sette avori, eseguiti intorno al 1270-80, sono conservati al Louvre di Parigi, ma non vi sono entrati “al completo”. Nel 1896 il museo acquista da due differenti collezioni, a Parigi e in Italia, quattro statue del gruppo: Giuseppe d’Arimatea, Gesù, Maria e la figura femminile simbolo della Chiesa. Nel 1947, i figli dei baroni Rothschild donano al Louvre una piccola statua d’avorio che, erroneamente, si pensa rappresenti un profeta, confinandola lontano dal gruppo per cinquant’anni. Solo pochi anni fa, spinta dall’evidente affinità stilistica, una studiosa del museo arriva alla corretta lettura: il quinto personaggio è Nicodemo. Tuttavia, anche a una lettura profana, non poteva sfuggire che ad andare persa non era stata solo la cornice architettonica in cui doveva essere originariamente inserito il gruppo. Ai piedi della Croce mancava Giovanni, il discepolo prediletto e, come insegna anche la celebre formella di Benedetto Antelami nella Cattedrale di Parma, alla presenza della Chiesa, non poteva che essere contrapposta quella della Sinagoga. Nel 2012 accade però il colpo di scena e appaiono sul mercato antiquario i due elementi mancanti: la donna bendata che simboleggia la Sinagoga e il piangente San Giovanni. È evidente a tutti che le statue debbano andare al loro posto, a ricomporre l’unità del gruppo; ma il proprietario non è di quelli che si lascia intenerire dal ricongiungimento degli affetti: vuole 2.600.000 euro, più di tre milioni di franchi. Gli Amici del Louvre raccolgono la metà della cifra, 500.000 euro arrivano dalla più importante assicurazione specializzata in opere d’arte, l’AXA, ma per portare a casa le due statuette servono altri 800.000 euro, quasi un milione di franchi. È così che il museo lancia una grande campagna di raccolta fondi online, crowdfunding, che in due mesi, grazie a 4500 privati cittadini, assicura al museo le due statue, oltre che la meritata attenzione pubblica sull’opera. È una bella storia di consapevolezza, attenzione, mecenatismo, cura, ricerca e senso civico. Una bella storia perché imitabile, in Italia o in Svizzera, dove non mancano altre “famiglie” da ricomporre e persone da lasciarsi unire da una giusta causa.

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