Diario londinese 1. Introduzione
In che città ti trovi se, nello stesso giorno, puoi visitare la più importante mostra mercato di giovane arte contemporanea del mondo, tre straordinarie antologiche dedicate a: Bacon, Rothko e Warhol, ma anche: una collettiva d’arte contemporanea cinese e cinque tra i più acclamati scultori contemporanei, messi in relazione con la più importante raccolta al mondo di arte assira, greca ed egizia? La scena si riapre a Londra, forse non la città più bella d’Europa, ma certamente un osservatorio unico sul mondo di domani. Londra è una città che corre a 200 all’ora: di giorno si corre nella City, il quartiere degli affari, tentando di bruciare interessi milionari; la sera si corre a Soho, il quartiere della trasgressione organizzata, tentando di bruciare amori e sensi. A qualunque ora si corre, tra un quartiere e l’altro, tentando di bruciar calorie. Ci vuol poco a capire come funziona e, scesi dalla scaletta dell’aereo, anche i turisti iniziano a correre. A questo ritmo, anche la politica espositiva della città non poteva che essere ipertrofica, eccezionale per qualità e quantità. Si tratta di una scorpacciata che obbliga il visitatore, pur restringendo il campo all’arte contemporanea, e alle mostre più importanti, ad infilarsi nella ruota del mulino, facendosi sbatacchiare, giro dopo giro, dall’oggetto del suo bruciare. Si ha perciò il sospetto che tale concentrazione non sia frutto di una coincidenza astrale, rara come un’eclissi di sole, ma la consuetudine per una città bulimica che anche nell’arte è l’ombelico del mondo. È l’espressione di una vitalità creativa reale, della quale le mostre sono solo il riverbero. Londra è infatti, da una quindicina d’anni, il cuore di quanto, in termini di novità artistica, sta accadendo sul piano internazionale. È lo scenario, spesso anche discutibile, in cui si stanno avvicendando fatti e personaggi, immagini e opere, dell’arte che sarà, dell’arte veramente contemporanea. Si tratta di quelle città magiche per la storia dell’arte, come la Parigi d’inizio Novecento, la New York degli anni Quaranta e degli anni Sessanta o, per andare più indietro, come la Firenze del Quattrocento e la Roma del Giubileo del 1600. Per quattro interminabili giorni, a correre in questo centro nevralgico del nuovo, ci abbiamo provato anche noi e non possiamo non raccontarvi cosa abbiamo visto e cosa ci è passato per la mente. Ogni due settimane dal 15 novembre, apriranno gli inserti Cultura del nostro giornale, le recensioni alle mostre dedicate ai più grandi maestri della seconda metà del Novecento: Francis Bacon, Mark Rothko ed Andy Warhol. Ma la centralità di questi autori, la centralità del contesto londinese e lo scottante tema del valore dell’arte contemporanea ci hanno spinti ad andare oltre, tentando un esperimento: intervallare le recensioni con cinque pagine speciali che cercheranno di rispondere ad alcune domande molto comuni sull’arte contemporanea, che ai più sembra incomprensibile o pretestuosa. Contiamo che le recensioni e le opere presentate portino agli occhi del lettore qualche punto fermo sull’arte figurativa e astratta del Novecento, sulla Pop Art e il valore dell’arte-immagine. Strumenti utili ad avventurarsi nelle quattro pagine speciali, alla scoperta delle nuove generazioni d’artisti, che con questa ricca ma ingombrante tradizione hanno dovuto fare i conti. Affronteremo il problema dell’incomunicabilità dell’arte d’oggi, della particolare declinazione che ha subito il bello, dell’utilità dell’arte, ma anche della sfida del cristiano che, dopo quasi duemila anni, sembra aver perso un’arte di riferimento. Nascono così i nostri “Diari londinesi”. Si tratta di temi grossi e le domande che si apriranno saranno certamente più grandi delle risposte che riusciremo a dare; qualche pregiudizio speriamo di scalfirlo ma, per il resto, sarà sufficiente aver rivitalizzato l’interesse per un tema che riteniamo cruciale, per dichiarare la battaglia vinta. Lo diciamo subito: crediamo che l’arte contemporanea sia bella, che, come in tutte le epoche, ci siano molte opere mediocri, altrettante sopravvalutate, ma anche che sopravvivano, tenaci, opere indimenticabili, senza le quali la vita sarebbe irreparabilmente più povera e meno comprensibile. L’immagine che accompagnerà queste puntate del “Diario londinese” è un’opera-simbolo dell’arte contemporanea: il celebre squalo tigre in formaldeide di Damien Hirst, il più celebre esponente della Young British Art, realizzato quando Hirst aveva 26 anni (1991), grazie al finanziamento del gallerista Charles Saatchi. Il titolo è una sorta di manifesto del suo pensiero: “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living” (“L’impossibilità fisica della morte nella mente dei viventi”). |