Dalle mani di Donatello
Ciò che sorprende in questa terracotta dipinta è il suo presentarsi a noi come un bouquet di circostanze che stanno accadendo. Tutto in lei parla di un divenire, di uno svolgersi ancora in corso. E non mi riferisco solo alla straordinaria vicenda con la quale questo capolavoro di Donatello è riemerso dall’anonimato per essere riconsegnato a fedeli e ammiratori. Sotto quel velo di sfrontata tenerezza scalpita, infatti, la storia di un rapporto tra carne e spirito che è il più grande augurio che si possa fare, allo scoccare del Natale. È la storia di un giovane Donatello, che si dedica ad un’opera dalla materia non nobile, e che si trova a scrivere la storia di uno dei passaggi più decisivi della vicenda figurativa occidentale: quello tra il Gotico e il Rinascimento. Una Madonna che, nel secondo decennio del ’400, si slancia ancora verso le linee affusolate alla francese, ma che è ormai irrimediabilmente attratta verso terra, verso la concreta umanità di una corporeità costretta ad usare la carne per parlare della vita. Portare gli occhi a questa scultura è una salutare operazione di riappropriazione del Natale e, insieme, della consapevolezza della nostra cultura figurativa – due occupazioni che non necessitano gradi di separazione. In essa, infatti, l’incarnazione, il farsi di carne, non accade solo grazie all’assunzione di generiche fattezze umane ma, più letteralmente, assumendo le fibre della carne umana, destinate a diventare, per questo, sempre più convincenti, grazie a un incrocio tra tratti, espressioni, sguardi e gesti che si stanno facendo reali davanti ai nostri occhi. Non si tratta ancora di un processo concluso – anche nello stesso Donatello ci saranno opere ancor più compiutamente e virilmente umane – ma che possiamo cogliere in un punto decisivo del suo imporsi. Spetterà a ciascuno, al proprio livello di abbandono, il riposarsi sulla levigata e perlacea pelle dei protagonisti, di una giovane Madonna ancora bionda, anzi dorata, dagli occhi un po’ allungati e dalle sopracciglia patrizie. Ci lasceremo condurre da questo guancia-a-tempia verso il Bambino a lei abbarbicato, un bambino che le si appoggia stropicciandole il viso, spostando quella carne che, così, dimostra la sua natura reale? Il labbro dischiuso di Maria sembra alzarsi per l’occasione, autorizzando il bimbo a schiudere quella bocca certa e pensierosa insieme. È inutile negare si tratti di un Bambino che vuole entrarci nella vita, si capisce subito che non ha intenzione di lasciarci in pace. Anche perché la storia perfetta ed esemplare che racconta questa Madonna rischia di scomodare perfino gli agnostici più coriacei, visto che condensa in sé tutti gli elementi del dibattito – o chiacchiericcio – artistico a cui i giornali ci hanno abituato in questi anni, voltati, per una volta, dalla parte giusta. Il nome altisonante, Donatello, incredibilmente non è emerso a vanvera, come quasi sempre accade quando si parla di un Leonardo, Caravaggio o Michelangelo “ritrovati”. E, non a caso, la scoperta nasce da una studiosa, Laura Ciferri, che s’imbatte in questa scultura durante una normale e sacrosanta ricognizione sul territorio, finalizzata alla catalogazione della scultura in terracotta in Umbria. Nasce dall’intuizione di una studiosa che interpella i colleghi più autorevoli, prima che le redazioni dei giornali; nasce da un lungo, sì lungo, restauro che si permette di dedicare sette anni allo studio e alla pulitura di un capolavoro, arrivando al risultato che le immagini di questa pagina mostrano. Un esito che ci rende felici di fare i nomi almeno dell’Opificio delle Pietre Dure, dove è stato condotto il restauro, della soprintendente Cristina Acidini che l’ha vegliato fin dai primi passi, di Laura Speranza che l’ha diretto e di Rosanna Moradei e Akiko Nishimura che l’hanno materialmente eseguito, liberando la stupenda cromia originaria, nascosta sotto molti strati di ridipintura. Una storia a lieto fine, insomma, che parla di un’unità esemplare e possibile tra le ragioni dell’arte e quelle della fede. Nel paese umbro di tremila anime, tra i più bei borghi d’Italia, quella di San Francesco – in cui verrà custodita la Madonna di Donatello – è considerata una “una sorta di chiesa museo” (dal sito del Comune), anche per la presenza di opere di Pomarancio e altri artisti minori; l’annesso convento francescano è ora sede dello stesso Comune di Citerna. Eppure, l’arrivo di questa Madonna, c’è da scommettere, sarà destinato a incrinare la visione museale di questo luogo; e non solo perché il suo ritorno ha portato alla riapertura al culto della chiesa – e anche questo non è poco – ma perché, come avviene in ogni chiesa, una Madonna, soprattutto se così umana, calamita a sé le devozioni più discrete, quelle privatissime e insospettabili, gli affidamenti più personali dei “pepponi” più incalliti, spesso nascosti tra i distratti turisti, arrivati al Borgo per l’importanza del nome dello scultore rinascimentale. Non ci sarà bisogno di annunci plateali, sarà magari questione di secondi, ma, ancora una volta, come in quel primo Natale, qualcosa di nuovo e dall’esito insondabile, potrà nascere da un bambino apparentemente inerte che s’attacca alla madre, in un anonimo paese fuori mano. |