La “Crocifissione bianca” di Chagall illuminata dalla speranza

Non stupisce che l’opera con cui auguriamo al lettore Buona Pasqua, la celebre Crocifissione bianca di Marc Chagall sia il dipinto preferito del nuovo pontefice. Certo si tratta di una scelta alquanto eterodossa, ben lontana dal panapprezzamento cattolico che converge su un affresco di Giotto o sulla Maestà di Duccio… Ma, a ben pensarci, non si tratta di una scelta incomprensibile, alla luce di queste prime settimane con papa Francesco.

Dipinta nel 1938, dal pittore russo poco più che cinquantenne, la grande Crocifissione pone la figura del Cristo in croce al centro di una corona di scene di sofferenza del popolo ebraico, più che mai attuali in quel 1938: l’anno posto all’inizio delle persecuzione degli ebrei in Germania e della drammatica “Notte dei cristalli”.

Chagall, di famiglia ebrea, rappresentò in più occasioni il tema di Cristo crocifisso, che raffigura come parte fondamentale della storia del suo popolo. Una centralità del “pro- feta” Gesù che suscitò diverse critiche e numerose interpretazioni. La raffigurazione del soggetto più comune e storicamente di uso dell’arte occidentale fu un modo per Chagall per sentirsi parte della cultura europea che aveva scelto come propria patria, fuggito dalla Russia e naturalizzato francese. L’originalità con cui tratta il soggetto è, infatti, dovuta alla necessità di liberarsi «del tutto, psicologicamente, dalla visione dei pittori di icone e di arte russa in genere». Si trattò di una liberazione effettiva – Chagall è considerato uno dei pittori iconograficamente più inventivi, tanto da attrarre le lusinghe dei Surrealisti – ma che, in questo quadro, non esclude un tributo alla tradizione delle icone russe, dove spesso la figura della crocifissione è circondata da piccole storie o segni della passione.

Chagall s’inserisce in una tradizione di artisti ebrei che, spinti dalla necessità di denunciare l’assurdità delle persecuzioni naziste, sottolinearono l’appartenenza di Gesù al popolo ebraico, attaccando il quale si attaccava anche il cristianesimo e, quindi, la stessa cultura occidentale che si diceva di voler difendere. È così che Cristo viene rappresentato con il tallit, lo scialle ebraico della preghiera, che gli cinge i fianchi e, al posto della corona di spine, porta un drappo; la scritta I.N.R.I., che sottolinea la sua pretesa regalità giudaica, è ripetuta anche per esteso in ebraico.

Si tratta di un Cristo ebreo che appartiene alla dinastia dei profeti, tanto che a disperarsi non sono Maria e Giovanni posti sotto di lui ma, sopra la croce, soffrono i patriarchi, piangenti e sospesi come gli angeli in una Crocifissione giottesca.

Intorno a Cristo, dall’alto a sinistra, inizia la persecuzione, a cominciare da quella delle bandiere rosse bolsceviche, subita dallo stesso Chagall. Le case sono in fiamme e saltano ribaltate dalla distruzione, con la stessa leggerezza con cui, in una celebre opera di Chagall, l’amata può volare come un aquilone se legata all’amato. I profughi cercano salvezza su un barcone, un rabbino cerca di mettere in salvo la Torah e un ebreo porta il cartello della vergogna: “Ich bin Jude”. All’estrema destra la Torah è già a terra srotolata e sembrerebbe in fiamme. Va a fuoco certamente, e irrimediabilmente, la sinagoga in alto a destra, distrutta come vennero distrutte quelle di Monaco e Norimberga il 9 giugno e il 10 agosto dello stesso 1938.

In un contesto del genere l’attenzione non può che rivolgersi a Cristo, attraversato e illuminato da un enorme fascio di luce che ne sottolinea il legame diretto con Dio, un fascio che prima illumina il corpo e la favella del profeta intento ad ammaestrare, o consolare, i compagni e che, al termine della sua corsa, accende la menorah, il candelabro ebraico. Una centralità di Cristo che corrisponde alla necessità di porre proprio lui nel cuore di tanta sofferenza umana e personale: «Non hanno mai capito – racconta il pittore – chi era veramente questo Gesù. Uno dei nostri rabbini più amorevoli, che soccorreva sempre i bisognosi e i perseguitati. Gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano. È stato considerato un predicatore dalle regole forti. Per me è l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi». Del resto per Chagall la preferenza e l’immedesimazione con la figura di Cristo è una costante tanto che, in una poesia nata dall’impotenza provata di fronte gli orrori visti in quegli anni, scrive: «Ogni giorno porto una croce […] / Già il buio della notte mi circonda / Tu mi hai abbandonato, mio Dio? Perché? […] / Corro al piano di sopra / per prendere i miei pennelli ormai a secco / E sono stato crocifisso come Cristo / fissato con i chiodi al cavalletto».

Ma non è la ricchezza iconografica e storica di questo dipinto in sé ad aver attirato l’attenzione di Bergoglio o, meglio, è la relazione di tale ricchezza con i tratti che caratterizzano questo Cristo in croce: «L’ha sempre definito uno dei più bei quadri mai creati, diceva che qui la passione è serena e so usa di speranza», ricorda l’amico Padre Ricardo Crisólo- go a “Le Figaro”.

Serena e soffusa di speranza. Francesco punta gli occhi a Cristo, ma un Cristo che è totalmente dentro le vicende del nostro mondo, le più drammatiche, le più dolorose, collettive e personali che siano, tutte ben presenti e descritte. Un Cristo che si pianta in mezzo ad esse per portare la speranza all’uomo, si pianta lì, con la sua apparente impotenza, presente con il corpo sanguinante e sereno di chi ha attraversato la sofferenza e la morte, per vincerle.

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