Edmondo Dobrzanski a Locarno. Con un ricordo di Dalmazio Ambrosioni

L’imponente retrospettiva che, in tre sedi, ci restituisce l’intero percorso di Edmondo Dobrzansky (1914-1997) permette di apprezzare la ricchezza e versatilità di un artista che è stato capace di dar voce al dolore di mezzo secolo, un’espressionista autentico, dall’inesausta capacità di interpretare il dramma che sta nell’uomo, tra l’uomo e sopra l’uomo. Un dramma che, declinato nei tanti temi della sua opera, porta alla luce lo strazio della guerra, lo squallore dei bordelli e delle attricette che tirano a campare, lo sfruttamento delle popolazioni africane, i disastri che da ecologici diventano umanitari, fino alla delusa speranza di vita di un mazzo di fiori in sfacimento. In Dobrzansky la tragedia è narrata con sincerità, a volte cinica, ma non retorica. E senza tentazioni di compiacimento; non è poco. Pittoricamente ciò che più affascina della sua opera è una ineluttabile matericità: Dobrzansky è una sorta di scultore della pittura che gioca la sua partita nella materia, sempre accumulata con ossessione ma, sciolta in una dominante grigia, destinata a sprofondare nell’ombra. È un pittore inclusivo: nel gorgo della sua opera Dobrzansky cattura e imprigiona uomini, donne, sentimenti, tragedie, fatti di cronaca o oggetti, con una voracità che ne fa un collettore insuperabile d’umanità e di storia. Ci sono artisti che sono decisamente esclusivi e sentono la necessità di lasciarci fuori, se non addirittura di espellere ogni cosa dalle proprie opere, pensiamo per esempio alle superfici smaglianti di Brancusi. Per Dobrzansky è esattamente l’opposto. Del resto un’irrefrenabile voracità sembra aver contagiato anche la stessa mostra e il relativo catalogo: tre sedi distinte e più di trecento opere, per un volume ricchissimo di più di 500 pagine… Un atto d’amore, è indiscutibile, anche se forse un po’ bulimico e che accresce il suo potere disorientante con una disposizione delle opere tematica anziché cronologica. Credo vada vista alla luce della necessità inglobante di Dobrzansky anche una delle caratteristiche più evidenti della sua opera, che sarebbe dannoso, oltre che puerile, nascondere. Mi riferisco alla vicinanza o simiglianza, tra le sue opere e alcune di soggetto analogo realizzate negli stessi anni da altri grandi artisti del Novecento. Non si può tacere la più che sporadica sensazione di déjà vu che si ha camminando tra le sale, quando, vedendo le opere di Dobrzansky, tornano alla mente I Gasometri di Sironi, I Fiori di Morlotti, le Bottiglie di Morandi, i Rottami di Francese, i “bassorilievi” d’olio e i Clown di Rouault, le ballerine espressioniste di Grosz o Dix… fino alle citazioni esplicite delle Combustioni di Burri. Un’occasione di confronto tra l’opera di Dobrzansky e quella di almeno alcuni di questi artisti sarebbe una felice opportunità per illuminarne la produzione, non perchè da considerare in un registro assoluto più grande dei “maestri” citati, ma perchè forte di un indiscutibile livello qualitativo, declinato in una propria esclusiva lingua, che uscirebbe ancor più chiara nel paragone. Dobrzansky attinge senza falsi pudori da tutti questi, inglobandoli e sprofondando anch’essi, come fa con la realtà e la storia, nella propria poetica. Così facendo ce li restituisce in un duplice, personalissimo e immortale atto d’amore: verso di loro e verso la propria necessità espressiva.

Con un ricordo di Dalmazio Ambrosioni

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L’articolo prevedeva, in apertura, una bellissima definizione del pittore, firmata da Mario De Micheli nel 1968:

“Il suo è un lavoro da minatore. Sembra che egli si apra la strada dentro blocchi di lucida antracite. E da questa scheggiata oscurità ci manda i suoi segnali d luce, i suoi bagliori: per gole, spaccature, fenditure, sfiatatoi. Sono segnali umani, bagliori d’esistenza di quell’uomo contemporaneo che l’aridità e le prevaricazioni dei tempi hanno costretto a vivere in foraminibus petrae, in caverna maceriae. Non c’è cristallo, plexiglas, alluminio inossidabile, di cui dispone la civiltà dei consumi, che possa far scordare questa realtà. La guerra è finita ma le macerie disseminate per l’Europa non sono scomparse, hanno anzi allargato il loro dominio, ricoprono la terra, sono dentro di noi. Edmondo Dobrzansky ce le rimette sotto gli occhi: così dal fondo esistenziale si risale alla storia”.

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