Anish Kapoor al Grand Palais

Una delle caratteristiche che sembra definire il genere uomo è la necessità di rivalsa sulle esperienze dei propri padri. Così, per rimanere in ambito artistico, negli anni Settanta ci rinfacciavano le Factory degli anni ’60, negli anni ’90 invidiavamo il Pop opulento all’italiana degli anni ’80 e, nel secondo decennio di questo millennio, ci tocca rimpiangere la Londra di Saatchi e Hirst del primo decennio  di questo millennio, ci tocca rimpiangere la Londra di Saatchi e Hirst del primo decennio… Non so se sarei mai stato credibile, spacciandomi per uno dei 500.000 di Woodstock (1969) e non mi resta che aspettare che cresca il mio nipotino, per mettere alla prova il fascino dell’epica dell’”io c’ero”, riferito al concerto di Vasco Rossi allo stadio di San Siro del ’90. Certo, lo ammetto, sono tra coloro che hanno già cominciato a coltivare la mitologia delle proprie esperienze uniche e irriproducibili. Ed eccoci arrivati al punto.

La sensazione è che, nel neonato millennio, quando a chiamare sono state esperienze di partecipazione ad un’opera d’arte, al posto giusto e al momento giusto mi sia trovato due volte. La prima a Londra, nel 2003, quando ero tra i ragazzi straiati sul pavimento della Turbin Hall di Olafur Eliasson alla Tate Modern, intento ad osservarmi nel piccolo riflesso dello sconfinato specchio che copriva il soffitto trenta metri più sù, posto a raddoppiare la già enorme sala e a completare il sole artificiale posto sul fondo per “abbronzarci”, diffondendo una vaporosa luce ocra. La seconda a Parigi, in questo 2011, nel ventre rosso di Leviathan, la monumentale installazione di Anish Kapoor al Grand Palais di Parigi (fino al 23 giugno). Per capire l’impresa di quest’artista inglese, figlio di un’irachena ebrea e di un padre indiano, è necessario in un certo senso predisporsi all’epopea, approcciarsi all’opera come ad un viaggio che ha certamente una forte componente ludica ma che, come nel caso dell’opera di Eliasson, non può ridursi ad essa.

Si tratta di un’installazione titanica che nasce dalla necessità di fare i conti con l’enorme e straordinario spazio del Grand Palais, così come richiesto dal ciclo di mostre in cui s’inserisce, Monumenta, che ha visto impegnati, dal 2007, artisti come Anselm Kiefer, Richard Serra e Christian Boltanski. I numeri sono da capogiro, perchè questo enorme pallone, progettato in Inghilterra e realizzato con PVC tagliato in Germania, assemblato in Italia e allestito a Parigi da una squadra di ingegneri della Repubblica Ceca, è alto 33 metri, largo 100 e profondo 72, occupa 13.500 metri quadri, ingombra 72.000 metri cubi e pesa “solo” 18 tonnellate. È un’opera d’ingegneria mirabile e nessuna prova è stata fatta prima di allestirlo in loco. È andata bene perchè, su una superficie di migliaia di metri, un errore di millimetri avrebbe creato delle grinze e l’artista era stato chiaro: “le grinze non sono ammesse”. Per gonfiarlo c’è voluta una settimana, ma per sgonfiarsi dovrebbero bastare 90 minuti. E sono dati importanti, perchè tutti percepibili vivendo l’opera: dal vero si ha contemporaneamente la sensazione di enormità e leggerezza, di stabilità ed effimero.

Attraverso una porta girevole, lo spettatore viene introdotto subito nel ventre rosso infuocato dell’opera: l’effetto è claustrofobico ed estasiante insieme; quando ritiene di aver assorbito abbastanza pulsazioni di luce-calorecolore-vuoti-pieni-righe-spazzi esce da un’altra porta che lo conduce all’interno del Grand Palais ma fuori dal ventre; solo lì, girando intorno al mostro, si rende conto della vastità della “bestia”, della reale forma trilobata – dal dentro non percepibile -, dello splendido color melanzana che dialoga con il senape e salvia delle strutture liberty, del perfetto inserimento nel Palazzo a vetrate e, forse, del pericolo scampato.

Il titolo dell’opera scelto da Kapoor, più che sottintendere un significato, ha chiaramente la funzione di metterne in luce la componente inquietante. Il Leviatano è un biblico mostro marino oltre che l’incarnazione del potere opprimente dello Stato Assoluto per il filosofo Thomas Hobbes. Ma il punto non è che cosa voglia dirci con quest’opera l’artista, ma che esperienza voglia farci fare. Kapoor ci porta al culmine del suo percorso artistico accogliendoci dentro ad uno spazio di fusione tra colore e materia, creando un oggetto monocromo con un’unica forma continua, ci attrae in una caverna di percezioni sensoriali irripetibili e introvabili in natura, costringendoci a fare i conti con le nostre paure, il nostro senso di intimità, la nostra percezione affettiva e l’esperienza di ricordi e pulsioni che non saranno mai uguali tra due visitatori. Uscendo ci fa prendere confidenza con la vastità e l’ingombro delle esperienze provate, con la profondità del nostro essere e con la straordinaria capacità che ognuno di noi ha di scatenare il proprio io reagendo alla vita. Sono esperienze che fanno paura. E, infatti, girando intorno al “mostro” del nostro io, dopo un tempo di silenzio variabile per ognuno, ammirazione e sconcerto lasciano spazio al richiamo del gioco, della foto alla giapponese o, che è l’altra faccia della fuga, a dotte considerazioni estetiche engagè. Ciò che conta è che nessuno potrà mai dirsi che, dentro a quel ventre madido, qualcosa non sia accaduto.

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