Ricordo di Luciano Bellosi

Conobbi Luciano Bellosi intrufolandomi ad un seminario universitario diretto da Giovanni Agosti all’Università degli Studi di Milano, nel 2004. Il seminario venne introdotto da una lezione pubblica sul metodo del conoscitore, culminata in un esempio pratico: l’attribuzione a Simone Martini del Guidoriccio da Fogliano. Al di là della posizione assunta nella controversa vicenda – Bellosi difese l’attribuzione – quello che mi stupì fu che lo studioso mostrava, foto dopo foto, l’esito di un lavoro per il quale era ritornato all’archivio fotografico del Kunsthistorisches di Firenze e si era rimesso a studiare il dipinto partendo da zero, come uno studente universitario. Avrebbe potuto schierarsi per partito preso da una parte o dall’altra, non affrontare veramente il problema, assumendo le difese di un’idea pur giusta, ma lui, alle soglie dei ’70 seppe rimettersi completamente in discussione su un tema che conosceva alla perfezione. Era la stessa libertà con cui lasciava fossero le opere a parlare, e solo loro, anche quando voleva dire mettere in crisi sistemi ormai consolidati, poggianti sulle tesi di grandi studiosi.

Al seminario lo vidi muoversi con passione, entusiasmo e certezza tra le grandi foto dell’archivio di Anna Maria Brizio, donate dalla studiosa all’Università e scelte per l’occasione. In due ore mostrò il metodo del conoscitore ai suoi “studenti per un giorno”. Fu anche l’occasione per sottoporgli una delle poche scatole rimaste dell’archivio fotografico appartenuto a Giovanni Testori e, davanti ai suoi occhi che brillavano, capii cosa vuol dire amare il proprio lavoro e aver una sete inesauribile d’imparare. Bellosi è stato un grande professore perché non ha mai smesso di essere un grande allievo. E non dimenticherò mai l’eccitazione fanciullesca con cui, del suo ultimo grande amore, ci mostrava le foto portate da casa: era lo stregonesco Bartolomeo della Gatta, del quale dobbiamo ora smettere di attendere la sua monografia.

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