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La malattia con gli occhi di Munch

Man mano gli anni passano, la vita ci avvicina ad occasioni sempre più frequenti di stare di fianco ad un malato. Del resto, disgrazie a parte, il lento invecchiare dei propri cari tenta ogni giorno di abituarci a questa scomoda frequentazione. È così che, mese dopo mese, ognuno di noi deve aggiungere ai carichi della vita il ricordo della nonna novantenne, che si spegne lentamente, quello dello zio diabetico, con il fegato andato, che non ha più di due settimane di attesa, quello dell’amico cronico, a cui una notte in bianco la regali quasi volentieri…  Piccole cose, di fronte ai grandi traumi che molti altri potrebbero raccontare. Ma ho sempre amato le piccole cose, sono accanito sostenitore della grandezza delle piccole cose, che avvengono nel chiuso di una stanza, come quella rappresentata in questo quadro.

La bambina Malata. Quando Munch lo dipinse aveva 23 anni, sua sorella Sophie era morta di tubercolosi nove anni prima. Di anni ne aveva allora 14 e nove anni prima era scomparsa la madre. Di anni ne aveva 5. Un cursus di tutto rispetto per il più celebre cantore della disperazione umana, soprattutto se si considerano gli unici compagni di viaggio rimasti al ragazzino norvegese: un gran freddo, una manciata di ore di luce al giorno e qualche tramonto lancinante. In effetti, ne sarebbero seguiti i suoi straordinari incunaboli del magone: Malinconia, Angoscia, Vampiro, L’urlo, Separazione… un buon curriculum, capace di scatenare truppe di psicanalisti e psichiatri, intenti a trasformarlo nell’uomo immagine del turbamento. È questa, grosso modo, la “cornice” del dipinto qui raffigurato, un soggetto in parte autobiografico, nel quale rievocare il proprio distacco da due persone cardine degli affetti. Un soggetto, proprio per questo, molto amato e ripreso altre cinque volte lungo quarant’anni di pittura. La prima versione è la più straordinaria, frutto di un’elaborazione sofferta che si va stemperando nelle altre:

«Quando vidi la bambina malata per la prima volta, la testa pallida con i vividi capelli rossi contro il bianco cuscino, ebbi un’impressione che scomparve quando mi misi al lavoro. Ho ridipinto questo quadro molte volte durante l’anno, l’ho raschiato, l’ho diluito con la trementina, ho cercato parecchie volte di ritrovare la prima impressione, la pelle trasparente, pallida contro la tela, la bocca tremante, le mani tremanti. […] Ho scoperto così che le mie ciglia partecipavano alla mia impressione. Le ho suggerite come delle ombre sul dipinto. In qualche modo la testa diventava il dipinto. Apparivano sottili linee orizzontali, periferie, con la testa al centro. Finalmente smisi, sfinito, avevo raggiunto la prima impressione».

Come spesso accade nella vita, nel primo incontro con il reale c’è già tutto, ma occorre un lungo lavoro per riguadagnarselo. L’effetto ottenuto è dirompente e non stupisce che, alla sua prima esposizione, il dipinto avesse suscitato scandalo e clamore. Ciò che turbò i norvegesi non fu il soggetto, visto considerato che, a fine Ottocento, si trattava di un tema abbastanza ricorrente. Ciò che sconvolge, allora come oggi, è proprio il frutto di quel lavorio descritto, intento a scavare, a sfregiare la materia, quel tormentare l’immagine fino a farla trasparire traccia di se stessa, di sé medesima sindone… L’effetto ottenuto non ha, infatti, nulla a che vedere con il processo visivo catturato dagli impressionisti o l’analisi spettrometrica dei ragionieri del pointillisme. Il pittore, intento a scolpire il soggetto nella materia, non è interessato a riprodurre la luce naturale, ma a riscoprire il dramma avvistato nel primo istante, di fronte alla realtà da raffigurare; per far questo, lascia che sia la materia stessa a essere irreparabilmente intrisa, dal reale e dal dramma. Non si tratta, evidentemente, solo di espedienti tecnici, malgrado Munch abbia usato, tra i pochi nel Novecento, l’incisione litografica con grandissima felicità d’esito. Si tratta di una profonda fiducia nel dato materico, della convinzione che sia a questo livello che si giochi la sua battaglia di pittore. Fu questa, del resto, una costante in tutta la sua pittura, fatalmente preponderante anche nella mostra luganese di dieci anni fa.

Ecco, allora, un filo di speranza in questo dolore, la speranza di chi alla materia, cioè alla vita, ancora crede, quella di un ragazzo di ventitré anni che non può arrendersi al rovinio delle cose, che forse non saprà mai cosa si nasconde dietro quella tenda nera che la ragazza fissa nel momento del trapasso, che non conoscerà mai la reverenza fatta di dolore e il dolore fatto di reverenza, con i quali la madre s’inchina, di fronte alla figlia morente, stringendone la mano. Nulla saprà del suo volto, quel volto che era troppo piccolo per avere il coraggio di ricordare.

Ma una cosa la sa bene. Che non si deve aver paura di maltrattare la propria vita, di sfregiarla, se occorre per viverla, perché è proprio quando sembra sparire dietro i nostri colpi, che ci risorge in faccia, come il primo istante.

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