Furto di Cézanne, Van Gogh, Degas e Monet

Zurigo è una città alla quale ci si affeziona. E a dirlo è un italiano. Non saprei bene spiegare perché, malgrado mi sia interrogato più volte sull’argomento. Certo è la cosa più distante dall’Italia che si riesca ad immaginare e, forse proprio per questo, c’è qualcosa che rimane in lei, ad ogni visita, indimenticabile. Lo ammetto, la sto prendendo un po’ larga, ma nella mia mente la notizia del furto alla Bührle ha creato un certo dissesto, tanto che i ricordi si affastellano in modo disordinato, riportandomi alla mia prima visita al piccolo museo zurighese…

La rapina dei quattro capolavori dal valore arcimilionario non è una di quelle brevi che stanno bene in prima. Come era prevedibile, stamane, tutti i più grandi quotidiani internazionali hanno dato la notizia, sfoggiando, per l’occasione, le inossidabili espressioni di rito: «furto del secolo», «incredibile rapina», «capolavori inestimabili», aggettivo subito contraddetto dalla contabilizzazione monetaria che sempre lo affianca. Frasi che hanno fatto letteralmente il giro del mondo, ma che raccontano solo in parte l’accaduto. Anche le congetture sul furto, l’ipotesi del riscatto o della commissione destinata ad una particolarissima collezione, non riescono a scaldarci fino in fondo. Le indagini avranno il loro corso e, naturalmente, ci auguriamo che un pronto ritrovamento faccia invecchiare di colpo queste parole. Anche perché le opere rubate, tutte realizzate negli ultimi decenni dell’Ottocento, sono in effetti opere prime, assolute, si diceva un tempo. Gli amanti degli impressionisti piangeranno il Campo di papaveri a Vétheuil di Monet, i raffinati conoscitori di Degas grideranno all’oltraggio per un quadro dal tratto istantaneo e fulmineo, grande come i più bei pastelli del pittore: Il conte Lepic e le sue figlie. La maggior parte dei notiziari hanno adocchiato subito il nome che fa notizia e strombazzato la perdita del Ramo di castagno in fiore di Van Gogh. In effetti, le ragioni non mancano: dall’esplosione incontenibile del ramo fiorito, al tratto sincopato che ha fatto accartocciare di vita le foglie, fino al cielo che, colto da una frenesia irresistibile, danza loro intorno, incapace di resistere allo scoppio vitale della natura. Bisogna ammetterlo: è uno dei rari dipinti capaci di commuovere ed eccitare allo stesso tempo. Ma il vero tonfo al cuore, non c’è dubbio, ce lo ha procurato Il ragazzo con il panciotto rosso di Cézanne. È di fronte alla minaccia di una perdita definitiva di questo quadro, che la mente ritorna a Zurigo, all’inverno, al sibilo dei tram che tagliano la città senza ferirla, alla ricerca di quel piccolo dannato museo, che conserva decine di quadri degni del MoMA, ma che sparisce nel tracciato urbano del rigore elvetico. Era una giornata di neve fresca, non ancora spalata, una domenica mattina silente all’inverosimile quando, finalmente, arrivai all’ingresso del Museo. Museo? Quando lo identificai capii perché non mi riuscisse di trovarlo. Niente più che una bella casa in mezzo a tante altre belle case, un civico qualsiasi in un quartiere residenziale; all’ingresso, non potevo credere che lo scrigno che cercavo fosse proprio quello: una abitazione borghese nella quale, varcata la soglia, ti vien da chiedere: «è permesso?». È per questo che non mi ha stupito la notizia, l’apparente facilità con cui è avvenuto il furto, così estraneo a quella natura silente e ordinata, così avulso a quel pezzo di terra da essere fatalmente imprevedibile, impossibile da scongiurare. Semplicemente non sembrava nel corso naturale delle cose… E allora non ci rimane che attendere il ritorno del “nostro” Cézanne, uno dei dieci dipinti più importanti dell’artista, uno dei ritratti capitali per la storia dell’arte… È proprio in quest’opera che il pittore va a fondo del suo studio sulla luce e sulla materia: la componente diagonale permette al ragazzo ritratto di incastonarsi nella realtà con perfezione assoluta e di cominciare a succhiare, da ciò che lo circonda la sua stessa vita, i suoi colori. La camicia, che solo il nostro cervello immagina bianca, è inzuppata di toni, riflette in sé quelli del divano, del panciotto rubino… perfino il volto sembra prosciugarsi di colore per andare ad intridere la camicia, portandola ad una consistenza materica eterna. È in questo quadro che capiamo cosa volesse dire costruire con il colore. Ma non siamo solo di fronte al vertice della sapienza compositiva e della passione materica di Cézanne. Ciò che rende eterno questo dipinto è il risultato di abbandono totale alla vita, al quale il pittore riuscì a portare la materia che lo compone. Il giovane ragazzo si erge a esemplificazione di un sentimento ben noto all’artista, e a tutti noi, divenendo il manifesto della malinconia La ferita per Zurigo è gravissima, l’oltraggio è alla sua stessa natura, appunto di straziante e gravida malinconia… È come se ne avessero prosciugato il lago, o raso al suolo la collina amata dagli scacchisti en plein air… Han rubato la malinconia, un sentimento che possiamo anche bestemmiare, ma troppo necessario per rinunciarvi.

Il Monet a Brissago

Prima di approdare al museo Bührle di Zurigo una delle quattro tele rubate domenica, ossia Campo di papaveri a Vétheuil, di Claude Monet, faceva parte della collezione che Max Emden, ricchissimo uomo d’affari ebreo nato ad Amburgo, aveva portato con sé nel suo esilio sulle isole di Brissago. Emden fu costretto a lasciare la Germania nazista e fu l’ultimo proprietario privato delle isole di Brissago, dove fece costruire la villa oggi annessa al parco botanico. E proprio a Max Emden la TSI ha recentemente dedicato un documentario intitolato I misteri delle isole, di Michelangelo Michelangelo Gandolfi e Nicoletta Locarnini. Il documentario – proposto di recente alle Giornate cinematografiche di Soletta, fuori concorso – rievoca, per voce del nipote Juan Carlos Emden, le persecuzioni subite dal nonno da parte del regime nazista, l’esilio dorato a Brissago, la spoliazione dei suoi beni, la morte in circostanze misteriose nel 1940 e la fuga in Cile del suo unico figlio, Hans Erich, i cui eredi sono attualmente impegnati nel difficile recupero dei quadri appartenuti un tempo alla famiglia. Tra questi, appunto, il Monet oggetto del colpo del secolo di domenica, numerose altre tele approdate in collezioni private e pubbliche di tutto il mondo e due opere di Canaletto, al centro di una vertenza legale con il Governo tedesco.

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