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Il restauro di Sant’Alessandro a Lasnigo

Una bellissima Chiesetta romanica, arroccata su una splendida collinetta, di lato al piccolo cimitero del paese, con un importante campanile, ricca al suo interno di affreschi, tra i quali un’importante Crocifissione. Per raggiungerla, ecco un percorso di cappellette, che come scaglie piantate sulla schiena di un dinosauro, accompagnano ciondolanti il cammino di coloro che si attardano sulla salita alla chiesa, fino al portone.

Un piccolo gioiello piantato lì tra i prati e le montagne del comasco, che sovrastano il lago. Il paese è Lasnigo e a noi non può che ricordare la terra delle molte filande, il paese dei Paracchi, il paese della mamma di Giovanni Testori, nel quale potersi rifugiare per fuggire alle calure estive. Dà una certa serenità, lo ammettiamo, che una storia tanto lontana, come quella che evocano nelle nostre menti un paese e una chiesa come questi, fatta di tradizioni care e amate in un paese, si ritrovino ad essere salvate e rinfrancate dalla modernità, in un intervento come quello che qui segnaliamo. Non solo ci troviamo di fronte ad un restauro dovutamente tecnologico, che diventa un laboratorio per tanti giovani della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, non solo un progetto pilota sostenuto, oltre che dalle indispensabili realtà locali, dalla Chiesa e dalla Fondazione Cariplo, da un progetto tra Italia e Svizzera, l’Interreg, che ci auguriamo possa portare ancora moltissimi frutti. Il punto è che tutta questa trama di rapporti di contributi e fatiche, si è saputa stringere intorno alla chiesetta di Sant’Alessandro, in tre anni d’umiltà e dedizione. Esattamente come ce lo racconta il libro realizzato per l’occasione, Celeste oro colato, dove trovare, tutte le informazioni necessarie sulla chiesa e i suoi restauri, ma anche sulla poesia che un evento come questo comporta. Perché la cura che Amadò ha voluto mettere nel realizzarlo, rispecchia perfettamente lo spirito di un progetto come questo, capace di intervenire sulla nostra storia, non solo nel tentativo di salvarla, ma di eternarla. L’eternità degli affetti, ancor prima che dell’arte o, tanto meno, dei restauri… È così che anche un viraggio di colore dovuto al tempo, e di per sé considerabile una disgrazia, è accettato e valorizzato quasi fosse un perpetuarsi eterno dell’azione del pittore. Ecco la parola, accettazione. Si può amare il tempo pur cercando di fermarne gli effetti. Lo si capisce guardando queste due foto della chiesa: prima e dopo il restauro. Una d’inverno e l’altra in primavera… oltre ad un albero dai nuovi germogli o alle colline rinverdite, spettacolo evidentemente immutato da secoli, la differenza tra le due immagini si nota appena. Sta tutta lì, tra le pietre delle mura, ripulite come fossero intervenute le infinite mani delle lavandaie del paese… Ma per il resto… sembrerebbe cambiar poco o nulla. Eppure è cambiato tutto. Quel monumento bellissimo durerà per molti anni ancora per raccontare le sue storie, la sua vita. È per questo che abbiamo voluto riprodurre alcune delle più belle immagini di questo libro, nelle quali vengono accostati dettagli degli affreschi ai dettagli della vita di paese: le ceste intrecciate, il legname tagliato, i tetti di pietra… Da questi accostamenti si capisce quanto l’arte nasca dalla vita e la vita riceva un respiro infinito dall’arte. Qualcuno potrà pensare che si tratti una storia per romantici, abbarbicati alla nostalgia dei piccoli luoghi di un tempo… ma è proprio Testori, con un semplice e drammatico episodio, pur nella coscienza di speranza dichiarata subito, a farci capire quanta grandezza sia celata nella piccolezza: «Credo che il passaggio attraverso l’inferno, ossia attraverso la negazione in atto del rapporto con Dio, sia una cosa tremenda, che non può non far paura, anche se, poi, Cristo ci tirerà su tutti.

C’è un’immagine, un ricordo, che conservo in me, e che si lega sempre a questi pensieri. Qualche anno fa, al paese di mia madre, Lasnigo, i miei nonni furono tolti dalla tomba, perché i nipoti avevano voluto costruire, nel cimitero, una cappelletta di famiglia. Doveva esserci, dunque, un trasferimento. Credo che fosse aprile, perché ricordo il colore verde giovane, intenso, dei prati. Ero lì con i cugini, figli della sorella di mia madre, per assistere alla rimozione. Ora, la bara di mia nonna era ancora intatta, mentre quella di mio nonno era stata un po’ schiacciata dal peso della bara di sopra. Allora, una volta tirati su, la bara fu scoperchiata e io, per un istante, vidi mio nonno. Aveva un vestito scuro. Poi il becchino tirò su i calzoni, e mi accorsi che, dentro, non c’era niente più che un po’ di cenere. Ma sotto il vestito c’era l’erba – non so se hai presente l’erba quando cresce sotto un sasso. Oppure quella che, almeno quando ero piccolo io, si seminava all’inizio della quaresima, in certi piattini, e aveva un colore bianco-giallognolo. Ecco, per un istante vidi che l’erba aveva la forma di mio nonno! L’istante successivo non c’era già più niente.

Ecco: per me l’inferno sarà una cosa così». Perché gli episodi della vita di ognuno, a chi è disposto a guardarli, danno lezioni che sono per sempre e per tutti. Uno può arrivare ad intuire una cosa inimmaginabile come l’inferno, di fianco ad una piccola chiesa di paese, oggi restituita al suo popolo e a tutti coloro che, scendendo dall’indimenticabile mangiata di polenta concia alla Madonnina di Barni, si dirigeranno verso casa, nella melanconia della domenica pomeriggio, un po’ satolli, un po’ paghi e un po’ irrequieti, come questa valle, come queste mura, come questa gente…

«come trovarsi dentro Cristo»

Lasnigo era il paese della mamma dello scrittore Giovanni Testori, punto di partenza per le gite in Valbrona, dove scoprì il suo primo dipinto di Morazzone, o per salir su fino a Barni, dove ambientare un capitolo di un romanzo incompiuto: La Maria di Barni. Ma è alla stessa Lasnigo e in particolare alla chiesa di Sant’Alessandro e al suo cimitero, che sono legati i suoi primi ricordi. Così scrive in un catalogo del nipote pittore, Giovanni Frangi, ricordando la nonna Giovanna: «Rammento quando si spense. Era un’estiva, bellica notte lassù, in quel di Lasnigo. Di fianco il Lambretto, affluente al Lambro, se ne scendeva, sotto le trapunte stelle. S’alzava, dietro la casa e l’annessa filanda, scoscesa e petrosa, la parete di Crezzo. Aveva, ella, il tuo nome; che, ancor prima, era passato da lei su di me; in me. La “reggiora”; così, in famiglia, in paese e in valle, s’era soliti nomarla. E tale resta. Nell’eterno. Della pace. Là, nel cimitero. Accanto alla chiesa di S. Lissandro». Ma nella stessa Chiesa di Sant’Alessandro, ecco l’esperienza più importante: «Era una croce di legno, nuda. C’erano solo le assi, dentro una piccola cappella vicino alla chiesa di Sant’Alessandro. Il corpo di Cristo non c’era. Il ricordo che ho va a una breve salita, con i gradini di pietra che portavano alla chiesetta romanica, con le cappelline ai lati, nella quale si trovavano gli affreschi della Via Crucis, smangiati dal salnitro. Più che immagini mi tornano in mente come ombre ed effettivamente lo erano. Vi andavo su spesso anche da solo, di pomeriggio. Se la chiesa era chiusa, guardavo attraverso una piccola finestra, con la grata arrugginita e vedevo la Crocifissione, sulla grande abside. La cosa straordinaria, per me, era che il pittore, dietro le mura di Gerusalemme, aveva affrescato una valletta, con degli anfratti di roccia, che si vedevano da Sormano. Per me era come trovarsi dentro Cristo, nelle stesse valli in cui vivevo».

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