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Un libro per Gabai e Dieter Schlesak

Ci sono frasi che ti accompagnano per anni, se non per sempre, diventando punti di riferimento ineliminabili. Sono sentenze che si piantano lì, si fanno il loro posto nella tua coscienza e, all’occorrenza, fanno da argine alla vita che scorre, tra inciampi e precipizi. Spesso si tratta di frasi semplici, assolutamente banali, e per questo eterne. Per me una di queste è che “La vita è una cosa seria”. Mi rendo conto che a cinquant’anni possa non fare un grande effetto, ma sentirsela dire – crederci – e ripeterla a sé e agli altri dai sedici ai venticinque, ti scava dentro. Ecco, tutte le volte che, per un motivo o per l’altro, parlo con Samuele Gabai, ne guardo i quadri o leggo i suoi lapidari scritti, mi torna in mente questa frase, con tutta la sua portata esistenziale. La vita è una cosa seria. La serietà della vita non esclude la letizia, la gioia, lo stupore, l’ilarità e, persino, la felicità. La serietà è omnicomprensiva e più è intransigente, più è includente. Così accade nella pittura di Gabai, dove i grandi temi della vita, della morte, della maternità, ma anche la ruvida fusione e concreazione dei mondi animali, vegetali e minerali che intessono la sua opera, eruttano da una serietà che non è solo morale, ma strutturale. Scesi nell’arena che la serietà delimita, accettatane la sfida, si aprirà, davanti all’opera di Gabai, una possibilità illimitata di scoperta di sé e del reale. Perché pochi autori come lui, facendo forza su questa serietà, hanno potuto e voluto indagare la creazione tutta e il fluire della vita in essa.

Il libro calcografico d’incisioni accompagnate dalle poesie di Dieter Schlesak che viene presentato oggi è come se ponesse un sigillo sacro a trent’anni di questa poetica della serietà e della vita. Mi sembra fin offensivo perciò sottolineare che Gabai usi l’incisione per le possibilità peculiari del mezzo e non per commercializzare multipli della propria opera pittorica. Non bastasse, Gabai definisce le sue incisioni dei “microbassorilievi” e mi sembra un neologismo bellissimo, denso di tutto il significato di sforzo, anche fisico, che compete questa tecnica ma soprattutto del tentativo perdurante che c’è nel gesto dell’artista, quando pensa ad un progetto editoriale come questo.

L’intervento poetico di Schlesak nasce non solo dalla visione delle incisioni riprodotte nel volume, ma dalla conoscenza dell’opera pittorica dell’artista. Si tratta quindi anche per lui di un punto di arrivo nella materia di Gabai, che lo stesso Schlesak racconta di aver ottenuto rispondendo alla necessità di trovare «uno spazio comune d’ispirazione, un’esigenza di rigore, una complessità della lingua nel rendere il visibile dell’arte» e accogliendo «l’incisione fisicamente, concretamente, nella parola».

Il risultato è un gioiello barbarico, sfacciatamente destinato a perdurare, che, in controtendenza all’effimero collettivo, impone le opere e le parole in una maestà di carta. Ogni volta che apriremo queste pagine, le figure di Gabai s’imporranno come appena plasmate di fronte a noi, si ergeranno nella loro forza primigenia, ci obbligheranno a scegliere tra serietà e fuga, ad accettare la “tuttità” di un viaggio o accontentarsi del bene effimero di un’illusione.

 

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