La verità naturale di Giovanni Segantini

«Io continuo così a lavorare alla mia opera… accarezzando col pennello i fili d’erba, i fiori, gli animali e l’uomo». Rivedere, a distanza regolare di anni, l’opera del pittore Giovanni Segantini (1858-1899) è un esercizio salutare, certamente per gli occhi e la mente, forse anche per il cuore. Fa tirare un respiro terso che non si ricordava mai abbastanza di poter provare. La mostra allestita a Palazzo Reale è certamente un’occasione unica, e da non perdere, anche per chi non è estraneo al rapporto diretto con la sua opera, magari grazie alle frequentazioni estive del bellissimo Museo di St. Moritz. Le opere esposte permettono, infatti, uno sguardo d’assieme sulla sua produzione che difficilmente potrà riaccadere prima di una ventina d’anni, tanto da rendere d’obbligo una visita, non soltanto per tirare quel necessario respiro alpigiano, ma per fissare a mente le coordinate della riconosciuta paternità segantiniana verso uno snodo cruciale della pittura europea a cavallo tra i due secoli.

Una scelta tematica

Certo, non si può nascondere che la mostra generi nello spettatore, giuntovi con qualsivoglia livello di preparazione, un certo spaesamento, avendo optato le super titolate e meritorie curatrici, Annie-Paule Quinsac e Diana Segantini, per una tentata disposizione tematica e non cronologica. Una decisione che va a danno della comprensione, una scelta deleteria, ingiustificata e inspiegabile non solo per coloro che, come chi scrive, è stato educato alla semplice constatazione che un artista – come chiunque – nasce e poi muore, in un senso di marcia irreversibile che lo porta a desiderare, amare, odiare e dipingere in modo diverso a vent’anni e a cinquanta. Il disorientamento cresce, infatti, quando il pittore in questione è apprezzabile proprio per le fasi della sua pittura che si avvicendano, si direbbe fiorendo una nell’altra, dando ragione di una crescita umana e artistica sorprendente. Viene il sospetto che proprio la consuetudine con l’artista della Quinsac – che di Segantini è la massima esperta da oltre trent’anni – l’abbia portata a cercare una nuova forma espositiva che, alla prova dei fatti, non aiuta né Segantini né la sua lettura, estirpando le opere dalle riconoscibili fasi della sua produzione (milanese, brianzola, grigionese, simbolista…), impedendone un salutare confronto, almeno mentale, con il preciso contesto culturale in cui sono nate, e costringendo a spalmare la melassa di parole rese vacue, come simbolismo e natura, che stiracchiate sala dopo sala perdono ogni tangibile pertinenza e possibilità di riscontro. Un peccato soprattutto per Milano, che per Segantini fu città centrale, e che in uno sviluppo cronologico avrebbe potuto riconoscersi in una contestualizzazione che ne facesse emergere il fermento e il peso culturale, allora all’altezza di una capitale europea, anche grazie a confronti, forse scontati ma fortemente opportuni e utili, con analoghe opere di Previati, per citarne giusto il primo. Del resto, l’assenza in mostra del Ritratto di Vittore Grubicy (1886), suo gallerista e personaggio chiave per l’arte di questi anni a Milano, a fronte di decine di quadri arrivati malgrado il loro difficile e costoso prestito, sembrerebbe un segnale significativo. Infine, non sono io il primo a rilevare – insieme ai tetri colori delle pareti – di come la stessa scelta del font, il carattere usato per la comunicazione della mostra e, in modo ancor più stridente, nei grandi pannelli esplicativi delle sale, sia un altro segnale di astrazione cronologica, essendo facilmente riconoscibile come nato in ambito fascista circa vent’anni dopo la morte di Segantini. Un peccato veniale, forse, ma che nella città del design e dell’editoria risulta una leggerezza di peso. Del resto, che lo sviluppo cronologico fosse fondamentale per comprendere il pittore lo dichiara la stessa curatrice, aprendo il bellissimo e utile catalogo con una ricchissima cronologia illustrata, anteposta a qualsiasi saggio e considerazione tematica.

Una mostra da non perdere

Basta questo per stracciare il biglietto per Milano? Assolutamente no. Perché Segantini sopravvive alla sua mostra, anzi ne rischiara le ombre con la sola forza della sua pittura, con la disarmante verità dei capolavori esposti. Certo, accompagnare il visitatore oltre l’innegabile fascinazione dei singoli dipinti dovrebbe essere l’ambizione minima di una mostra pubblica, ma non sarà difficile attrezzarsi, almeno un poco, grazie a qualche coordinata, per ricucire i brandelli di questa bellissima coperta lacerata. Basterà tenere a mente che dal paese natio, Arco di Trento, e da quel 1858, la vita, grama, di Segantini si spostò presto su Milano, dopo che la morte della madre e del padre, nel giro di due anni, lo lasciarono alle cure della sorella, orfano a 8 anni. «E qui comincia la vita mia personale, tutta a me, alternativamente buona e grama, ma non mai tutta una perchè anche la tristezza ed il dolore non mi rendevano del tutto infelice». Non manca il riformatorio a 12 anni, per ozio e vagabondaggio, ma già a 15, il fratellastro Napoleone lo fa lavorare nel suo laboratorio fotografico a Borgo Valsugana, in Trentino, mettendolo a contatto con una percezione visiva che ne aprì gli occhi sull’arte. È così che tra i 17 e i 21 anni, tornato a Milano, è il tempo dei corsi serali a Brera, che ci portano fino al 1879- ’80, l’anno del suo primo Autoritratto che, dopo una bella sala introduttiva di fotografie e documenti, di fatto apre la mostra. In questa sala sono riuniti i sorprendenti e inquietanti autoritratti di molti anni dopo, di un coté, questo sì, fortemente simbolista e capace – guarda caso date alla mano –, di restituire la grandezza anticipatoria di Segantini sulla diffusione europea del genere. Ma rimanendo a questo primo periodo di formazione milanese non mancano i capolavori riconosciuti come Il coro di Sant’Antonio (1879) dipinto sulla tela di un paracamino («Non avevo certamente inteso di fare un’opera d’arte, ma semplicemente di provarmi a dipingere») o il molto meno noto – ed eccezionalmente ricomposto per l’occasione – dittico I pittori di una volta e I pittori dell’oggi (1882-’83) in cui Segantini si cimenta con la complessità di un messaggio allegorico e di denuncia sociale e religiosa.

Una sfilata da trattener il fiato

La mostra prosegue con sale dedicate al ritratto e alla natura morta, per poi frangersi in una decina di stanze in cui si alternano quadri indimenticabili. E qui il visitatore non avrà che lasciarsi trasportare dai capolavori, perché non c’è praticamente opera cardine di Segantini che non ritroverà: dalla celeberrima Ave Maria a trasbordo (1886) a Le due madri (1889) da Alla stanga (1886) a Mezzogiorno sulle Alpi (1891), da Petalo di Rosa (1884-’90) a La raffigurazione della primavera (1897), tele spesso affiancate da bellissimi disegni, in un carrellata da far girare la testa, fino all’ultima sala dedicata a L’Angelo della vita (1894) del quale sono esposte, insieme all’imponente tela di Milano, alcune bellissime versioni da cavalletto.

Tra materia e natura

Quadro dopo quadro, il visitatore avrà la possibilità di lasciarsi coinvolgere nella ricerca pittorica di Segantini, padre del divisionismo italiano, da tenere a mente fin nelle striature materiche per confrontarle con le esperienze del Pointillisme francese, analoghe eppur così distanti: «E incomincio a tempestare la mia tela di pennellate sottili, secche e grasse, lasciandovi sempre fra una pennellata e l’altra uno spazio interstizio che riempisco coi colori complementari, possibilmente quando il colore fondamentale è ancora fresco, acciocché il dipinto resti più fuso. Il mescolare i colori sulla tavolozza è una strada che conduce verso il nero; più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremo il nostro dipinto verso la luce, l’aria e la verità».

Ma sarà anche l’occasione per farsi abbracciare dal suo amore per la natura, che sarà stato forse panteista ma che, certamente, fu di una purezza che non si può che desiderare: «La Natura era diventata per me come un istrumento che suonava accompagnando ciò che cantava il mio cuore. Ed esso cantava le armonie calde dei tramonti ed il senso intimo delle cose, nutrendo così il mio spirito di una melanconia grande, che producevami dall’anima una dolcezza infinita».

La visita alla mostra sarà l’occasione perché ognuno possa dare una risposta alle domande che Segantini si è posto tutta la vita e che hanno spinto il suo lavoro inesausto: «Riuscirò io a rendere l’eterno significato dello spirito delle cose? Saprò dare alla Natura che dipingo quella luce che dona la vita al colore, e che illumina e dà aria alle lontananze e rende infinito il cielo? Saprò io congiungere l’idealità della Natura coi simboli dello spirito che l’anima nostra rivela?».

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