David Hockney al Museo Van Gogh

Per un pittore e per un ammiratore incondizionato di Van Gogh come l’inglese David Hockney (1937), poter allestire una propria personale al Van Gogh Museum di Amsterdam è certamente la realizzazione del sogno di una vita. E nessuno, del resto, dubitava che tale privilegio se lo fosse meritato, vista la caratura dell’artista e il legame tutt’altro che tangenziale tra i rispettivi esiti pittorici e l’urgenza espressiva di entrambi. Hockney non ha mancato di esplicitare in più occasioni il proprio amore incondizionato per il pittore olandese e una particolare consonanza. Del resto, come lui stesso ricorda, anche la sua produzione deve molto a un trasferimento: dalla luce bruma e filtrata del freddo paese d’origine, Bradford nello Yorkshire, a quella abbacinante di una città calda d’elezione: Los Angeles, in California. Un mutamento di luci e scenari dirimente, che ne accese la pittura, esattamente come era avvenuto per Van Gogh all’arrivo ad Arles.

La mostra ha il pregio di accostare puntuali paesaggi dei due pittori, creando visioni a confronto dalla liceità, se non necessità, tangibile. È così che una sequenza di acquerelli su carta di pari formato sono disposti a creare un pacificante polittico, dispiegati a dettagliare diverse visioni di paesaggi campestri a piena luce, felicemente accostate a un paio di paesaggi ampi e cocenti del padrone di casa. Un secondo polittico di carboncini fittissimi e ariosi insieme – in cui la vegetazione sbriciola gli umori della primavera incipiente intorno a piccole strade ricurve e infinite – è messo a confronto con temporalesche carte vangoghiane, solcate a matita e inchiostro.

Naturalmente la mostra, visitata a stretto giro dopo i tre piani del Museo, con gli occhi pieni della collezione permanente, facilita un confronto mentale anche con i dipinti non sottratti al percorso espositivo ma, come evidenzia il catalogo, fortemente pertinenti. Fra questi, certamente, i tre estremi e celebri paesaggi oblunghi, quella terna di opere dipinta da Van Gogh negli ultimi giorni di vita, in una sequenza drammatica: dal campo di grano schiacciato dalle nuvole del temporale a quello crivellato di corvi, fino al dettaglio ravvicinato di un’accolita di radici agonizzanti tra i colori, in cerca di un definito contesto di nutrimento e appartenenza che il suicidio negò non solo al dipinto, rimasto incompiuto.

Del resto l’interesse di Hockney per la pittura che lo ha preceduto è tutt’altro che rapsodico, come dimostra un suo grande libro del 2001 che gli richiese due anni di lavoro, pressoché esclusivo. Secret knowledge. Rediscovering the lost techniques of the Old Masters è interamente dedicato ai maestri del passato e alla loro tecnica esecutiva. È un viaggio all’interno della pittura in oltre 450 immagini, dettagli e accostamenti parlanti quanto i testi – dal mosaico bizantino di Cefalù a Van Gogh, appunto – introdotte da una citazione di Roberto Longhi: “I dipinti sono i primi documenti. I documenti d’archivio possono essere falsi; il giudizio critico no”. Una dichiarazione d’intenti che suggerisce una chiave di lettura per la stessa opera di Hockey, del resto, da godere nella sua evidenza formale e cromatica.

Perché la mostra è qualcosa di più di un accostamento puntuale e palmare tra due sensibilità tematiche, cromatiche ed esistenziali. È innanzitutto l’esplosione dell’opera degli ultimi quindici anni di Hockney, segnata da un ritorno ai paesaggi dello Yorkshire, ma illuminati dai colori californiani. Superati i settant’anni, nel 2010 l’artista scopre la straordinaria potenzialità di un semplice programma di disegno, prima sull’iPhone e poi sull’iPad, con il quale dar vita ad opere digitali, traducibili in stampate seriali dal formato potenzialmente infinito. Con un tablet sempre sottomano si azzera il tempo tra visione e traduzione pittorica; non servono più colori o matite e si annullano le gerarchie dei soggetti, perché ogni cosa può essere immediatamente e facilmente ritratta.

Ma quando siamo ormai ubriachi di tanto colore e tele giganti che superano i dieci metri, Hockney ci fa provare anche l’esperienza simultanea delle quattro stagioni. Al centro di una stanza buia, siamo circondati da quattro pareti occupate da altrettanti grandi video, girati lungo lo stesso tratto di strada nel bosco, in quattro diversi momenti dell’anno. L’immagine di ciascuna parete è solo apparentemente una: a ben guardare, è creata dall’unione di nove schermi, su cui scorrono differenti riprese, realizzate allestendo sul cofano di un’automobile nove telecamere indipendenti, controllate dallo stesso Hockney. La ricerca è analoga a quella sperimentata dagli anni ottanta nei suoi celebri collage fotografici, di una potenza tanto imitata dai suoi epigoni, quanto irraggiunta. Le immagini sono la tavolozza con cui l’artista si può muovere nello spazio, scegliendo tra le inquadrature e, questa volta, anche nel tempo, selezionando i secondi di riprese da montare. Il risultato è un’immersione totale e verosimile nello spazio della natura e nelle quattro stagioni: grazie a “The four seasons, Woldgate Woods” (2010-2011), ci sentiamo risucchiati lungo questa stradina, via via impregnata dal rigoglio primaverile, dalla calura estiva, dai mille colori dell’autunno e dagli alberi innevati dall’inverno.

Ma come è arrivato fino a qui David Hockney? Facendo scorrere a memoria, o con l’ausilio di una monografia, l’opera dell’artista ultraottantenne, non è difficile cogliere come la direzione tirata dalla sua ricerca punti alla campitura cromatica pura e abbacinante, anzi disarmante. Si capisce come sia stato importante, tra gli anni Cinquanta e Sessanta attraversare e ripulire la propria anima pittorica ripercorrendo la linea tesa tra Picasso e Bacon, per sciacquarsi i panni ai piedi delle litografie più pure di Warhol, senza il quale sarebbe difficile immaginare le sue celebri “piscine”, dove, dalla metà degli anni sessanta, la lascivia si sterilizza sotto il sole abbacinante della California. Solo così Hockney arriva a Matisse, non attraverso una scorciatoia, ma nella conquista senile dei principi elementari della pittura. Del resto l’ultimo Matisse, complice la malattia, arriva alla purezza del découpage e Alberto Burri giunge ai “Sestanti” e alle sculture in ferro smaltato solo dopo aver attraversato sacchi, bruciature e cretti. Tutte conquiste visive, non a caso, legate a nuove sperimentazioni tecniche.

Hockney ha tracciato la sua cristallina traiettoria pittorica in un rapporto personale e reciproco con Andy Warhol, Francis Bacon e Lucian Freud, per citare solo i maggiori, e al netto delle contaminazioni con ciascuno di loro – necessariamente unilaterali solo nel caso del pittore olandese – sembra lecito chiedersi cosa aggiunga la natura di Hockney a quella di Van Gogh. La risposta, uscendo dalla mostra e dal museo, è tanto semplice quanto inesorabile: la felicità. Certo non schiantarsi sui trentasette e festeggiare gli ottanta ha i suoi vantaggi. Ma tanto la vertigine drammatica del pittore olandese gli impedisce di trovar pace anche nel più eclatante splendore cromatico e naturale, tanto l’esplosione del colore e la sicurezza del tratto nitido e amplissimo del pittore inglese ci distende l’animo, concedendoci di respirare a pieni polmoni. L’impressione è che si colga in questa mostra una complementarietà possibile, che ha qualcosa da dire non solo sui due pittori, ma sulla funzione stessa dell’arte, che si fa compagna di vita solo se, nella sua coralità, è capace di dilatare continuamente lo spettro infinito di desideri, turbamenti ed estasi dell’umano, in ogni latitudine e tempo.

Davide Dall’Ombra

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