Eppure è qui

Arriviamo affaticati a questo Natale. Nella migliore delle ipotesi affaticati e speranzosi. Ci portiamo alle spalle le ferite di questi anni di spaesamento pandemico, che stiamo scoprendo capace di esacerbare i vuoti di senso e la debolezza dei legami che già ci stavano tagliando le radici. Siamo stati buttati giù dal letto dalla più terribile delle sveglie, la sirena delle bombe, risentita quanto basta per abituarci anche a quella. I cesti natalizi invenduti, l’energia a caro prezzo e i rincari, necessari o in mala fede che siano, han svuotato le tasche di tanti e riempito le bocche di tutti, senza che ciò servisse a risparmiarci, almeno, il saliscendi dal tram in corsa degli ultimi regali, perché “almeno quelli!”…

È in momenti come questi che il Natale arriva inesorabile a dirci: “fermo: ora guarda lì”. Ed è in frangenti come questi che il bisogno di un reset e la sete di un “malgrado tutto” ci fanno tornare a una Natività tanto cara, nostra e accostante come questa pala di Romanino, oggi conservata alla bresciana Pinacoteca Tosio Martinengo. E non solo perché tra pochi giorni entreremo in un 2023 che vedrà Bergamo-Brescia città italiana della Cultura, ma perché a volte la vera rivoluzione è dove meno te l’aspetti. “L’alternativo è il tuo papà”, cantavano gli Afterhours già venticinque anni fa, e oggi la vera alternativa la possiamo trovare nella cornice di una pala del Cinquecento.

Basterà attingere al dono gratuito e prezioso del tempo e dell’attenzione di cui disponiamo, per vedere che Romanino non ha avuto bisogno di sovvertire i margini della tradizione per ruttarci addosso la sua modernità. Il suo anti-rinascimento ce lo racconta a suon di umanità, nella stallatica giustapposizione di tratti di realtà accostante e tangibile. Al centro ci riempie di meraviglia la regalità di quel manto argenteo cangiante che sovrasta la scena. Cesellato come in uno sbalzo metallico, fa di Maria un tabernacolo, a ricordarci che Lei non è (solo) una donna qualsiasi e che la sua Immacolata Concezione è una vertigine tra fede e ragione con cui dobbiamo fare i conti. È una scena potente, tanto da irradiare energia verso il cielo e centrifugare i tre angioletti, tutta carne e poco spirito, che si aggrappano allo spartito per non volare via. Una lama d’argento, quella del manto, che certo poco allevia la durezza su cui è poggiato Gesù: non sembra troppo a suo agio, anche se ancora ignaro del significato di quella piccola civetta poggiata sulla mensola dell’arco in alto a sinistra. Come lei, anche Lui (per noi) non avrà paura ad attraversare le tenebre della notte-morte.

Non ci manca nulla di fronte a questa tela: la semplicità del terreno calpesto, la maestosità acciaccata delle rovine che dal primo piano si van definendo sul fondo, lumeggiate da quel sole ormai prossimo al tramonto che dona alla scena una luce post vespertina. Ma sulla sinistra, a contrappunto di quotidiana umanità, un dialogo di gesti naturali mette in relazione San Giuseppe, cui era dedicata la chiesa da cui viene il dipinto, con due viandanti, forse a immagine dei Frati minori osservanti, che quella chiesa avevano in custodia. Con un colpetto sulla spalla sono quei due personaggi in ombra a richiamare l’attenzione del padre putativo, obbligandolo a torcersi verso di loro. Giuseppe non ha molte spiegazioni da dare. Ha solo quello sguardo e quel gesto della mano: “Cosa devo dirvi? Non è che capisca tanto, eppure eccolo: è qui.”

Davide Dall’Ombra

Didascalia: Romanino (Girolamo Romani), Sacra Famiglia, olio su tela, cm 241 x 180, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia.

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