Rinascimento ticinese. 2 L’arazzo di Zenale

Esponendo quest’opera, in un sol colpo: si presenta al pubblico un capolavoro unico, facendolo riemergere, dopo mezzo secolo d’oblio, dai depositi di un importante museo francese, ignaro del capolavoro di cui poteva vantarsi; per farne cogliere al pubblico tutta la bellezza, la Pinacoteca Züst ne sostiene il restauro; viene decifrata la scritta posta sul gradino più basso del trono di Cesare e, con essa, s’identifica l’autore dell’opera, Antonio Maria da Bozzolo, e l’anno, 1509; proprio partendo da questa data si trova conferma ad una convinzione che i curatori stavano maturando per ragioni stilistiche: il disegno seguito dal tessitore spetta nientemeno che a Bernardo Zenale. Ma portare in mostra un’opera come questa significa evocare un mondo. Questo arazzo dal soggetto profano è infatti la testimonianza di una ricercata committenza comasca, la famiglia Rusca, e ci aiuta ad addentrarci in un raffinato crocevia culturale, probabilmente più di tante letture o ricostruzioni, invitandoci in un mondo colto che si affiancava alla committenza pubblicamente fruibile in Chiese e Santuari. Inseguendo la danza dei fili di seta e oro sembra di sentire le coppe di vino che si scontrano, i lini delle tovaglie ricamate che si stendono, il chiacchiericcio e le viole che ronzano: una piccola corte, forse di provincia, ma pur sempre nella città di Paolo Giovio…

E proprio mentre ci lasciamo andare all’immaginazione, a farci venire i brividi è il pensare che quest’opera, approdata a Parigi tra il 1892 e il 1895, chissà, avrebbe anche potuto esser vista dal più grande scrittore francese del Novecento, allora già ventenne e, pochi anni dopo, impegnato a cucire, filo dopo filo, il tessuto del suo mondo borghese. Ci atterrisce pensare quante pagine della Recher che avrebbe potuto intessere, entrando e uscendo da quest’opera, legando il suo mondo al nostro, accarezzando questi orditi, come passando il dito dell’amante sul profilo delle labbra dell’amato. Si sarebbe soffermato sul turbamento, forse un poco di maniera, del bel Cesare davanti alla testa del cognato? Avrebbe indugiato sugli animali posti qua e là a corredo simbolico della scena? Credo non si sarebbe lasciato sfuggire l’eterno incontro tra lo sguardo disincantato di un soldato un po’ rozzo e scarmigliato e quello inespressivo di un profilo da medaglia in un biondo boccolato. Di certo, alzato il mento da quegli sguardi, attratto dalle rocce salmone che incorniciano l’incontro, si sarebbe lasciato incantare da un paesaggio che forse anche a lui avrebbe ricordato pace blu e fronde in fiore di un Giappone all’europea. D’Altronde, all’arrivo a Parigi di quest’arazzo, Le Père Tanguy amato da Rodin era asciugato da qualche anno appena…

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